Sintesi dell'articolo
« Dans le hockey, si un joueur était raciste, ses coéquipiers ne l’accepteraient pas ». Trois questions à Michael Ngoy, hockeyeur professionnel suisse» (francese)
Nel corso della sua carriera sportiva è già stato vittima o testimone di episodi di razzismo o di discriminazione?
Da quando ho iniziato la mia carriera da professionista all’età di 19 anni non sono mai stato oggetto di insulti o commenti razzisti. È un tema su cui sono già stato interpellato più volte e la mia spiegazione è che in tutti gli ambiti, sportivi e non, essere l’unico nero tra bianchi, o viceversa, suscita interesse e simpatia. Prendiamo l’esempio di Tiger Woods nel golf o di Lewis Hamilton nella formula 1 o il mio nell’hockey, dove il 99,8 per cento dei giocatori sono bianchi. In tutte le squadre per cui ho giocato sono sempre stato accolto con simpatia, anche dai tifosi.
Come definisce il razzismo o la discriminazione nel suo sport?
È difficile rispondere a questa domanda, visto che non sono mai stato confrontato con il problema. Nell’hockey, un giocatore razzista non sarebbe accettato dai suoi compagni. Può darsi che alcuni lo siano, ma sanno che è nel loro interesse che non lo si venga a sapere.
Quale o quali misure dovrebbero essere prese per lottare meglio contro il razzismo nell’hockey e nello sport in generale?
Non è possibile vietare a qualcuno di essere razzista né di fargli cambiare il modo di pensare. Combattiamo il razzismo da secoli, ma non siamo riusciti a ridurlo neanche di un po’. Razzismo non è soltanto gridare insulti ad alta voce, ma anche semplicemente pensarli. Un tifoso che pensa che non sia normale avere così tanti neri in una squadra nazionale europea è razzista; non è necessario che lo dica ad alta voce. Sensibilizzare le generazioni future potrebbe essere una misura per arginare il razzismo, ma basta un contesto razzista per annullarne l’effetto.