TANGRAM 49

Niente su di noi senza di noi !

Rohit Jain

Riflessioni sul diritto alla memoria e alla riparazione nella Svizzera postmigratoria e postcoloniale.

Rohit Jain

Il fatto che noi siamo qui e che io ora dica queste parole è un tentativo di rompere quel silenzio e di gettare un ponte tra alcune di quelle differenze tra di noi, perché non è la differenza a immobilizzarci, ma il silenzio. E ci sono così tanti silenzi da rompere.

Audre Lorde, The Cancer Journals

Nel 2014 Fuat Köçer e Halua Pinto de Magalhães, allora membri del Consiglio comunale di Berna, hanno presentato al parlamento cittadino un postulato degno di nota intitolato «KulturEvolution der Institutionen» (evoluzione culturale delle istituzioni). Partendo dall’esempio di quella che un tempo si chiamava «Corporazione dei Mori», i due politici criticavano la Città perché nello spazio pubblico tollerava simboli coloniali e razzisti25 e chiesto che fosse trovata una soluzione d’intesa con il servizio di protezione dei monumenti storici. Avevano inoltre integrato la questione in un catalogo di misure volte a contrastare l’esclusione della popolazione migrante dalle istituzioni pubbliche poiché, secondo loro, era illusorio credere che, visto il contesto, queste persone potessero semplicemente inserirsi nelle strutture egemoniche vigenti. In altre parole: non ci si può attendere dalla popolazione migrante che si senta parte e si integri in una società che ammette simboli razzisti in pubblico – celebrandoli persino come patrimonio culturale – e che mantiene in vita ostacoli istituzionali alla partecipazione.

Il postulato, decisamente provocatorio, aveva sollevato un vespaio: la stampa locale e nazionale reagì o prendendosi gioco dei due «secondos» o indignandosi perché avevano osato mettere in discussione la visione storica tradizionale e il patrimonio culturale svizzero. Come mai reazioni tanto veementi? In primo luogo, perché la Svizzera si era calata da sola in un sonno profondo per rimuovere la complicità nel colonialismo, la collaborazione durante l’Olocausto, lo sfruttamento delle persone migranti e altre ingiustizie storiche che le avevano fruttato prosperità e sicurezza. Si cullava nel sogno della rettitudine, della neutralità e della tradizione umanitaria, sottraendosi così alla sua responsabilità politica, economica, giuridica e morale26.

Qualsiasi tentativo di perturbare questa condizione di amnesia – ad esempio rammentando episodi della storia che si preferiva ignorare – scatenava resistenze e, fin troppo spesso, persino aggressività. In secondo luogo, perché – e qui stava la provocazione – Köçer e Pinto de Magalhães pretendevano, in quanto persone con retroterra migratorio ed esperienza di razzismo, di giocare un ruolo attivo nell’elaborazione della visione storica e del canone del patrimonio culturale, di partecipare alla storia della Svizzera. Cosa che hanno fatto con il loro postulato. Critiche alla cosiddetta «politica di facciata» giungevano tuttavia anche dalla sinistra e dai liberali. In un articolo sulla stampa Georg Kreis, già presidente della Commissione federale contro il razzismo e professore di storia, dichiarò che il postulato era stato depositato con le migliori intenzioni, ma non aveva sortito l’effetto auspicato: la discriminazione strutturale, ad esempio sul mercato del lavoro o dell’alloggio, non era stata considerata, e con la pretesa del politicamente corretto si spaventava il centro, solitamente di vedute più aperte. Questa critica non rende però giustizia al postulato per due ragioni: innanzitutto, quest’ultimo collegava in modo intelligente il piano simbolico e quello istituzionale del razzismo strutturale. Inoltre, dall’articolo emergeva un atteggiamento professorale e ufficioso che sembrava quasi negare ai due «secondos» la capacità di comprendere come funziona il razzismo e la facoltà di contribuire a scrivere la storia svizzera27.
Richieste politiche, come questa, di rielaborare le ingiustizie della storia nel contesto del razzismo non erano nuove: dopo che, negli anni 1970, venne alla luce il crimine perpetrato dalla Fondazione Pro Juventute con il progetto «Bambini della strada» nei confronti delle famiglie jenisch, sinti e rom, negli anni 1980 venne commissionato uno studio storico e furono accordati risarcimenti. Negli anni 1990, su pressione della politica estera, la Svizzera istituì la Commissione Bergier per analizzare il ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale e nel respingimento dei rifugiati ebrei alla frontiera. Dagli anni 2000, diversi interventi parlamentari hanno chiesto di approfondire il ruolo giocato dalla Svizzera nella tratta degli schiavi. Ad eccezione dei risarcimenti accordati con esitazione per le violenze perpetrate nel quadro del progetto «Bambini della strada» e, nel caso dei sinti e degli jenisch, del conseguente processo di riconoscimento quali minoranze nazionali, le misure adottate a livello nazionale erano focalizzate esclusivamente sulla rivisitazione critica delle conoscenze storiche.
Il postulato presentato al parlamento della Città di Berna era invece profondamente diverso perché rivendicava per l’intera comunità delle persone nere, indigene e altre persone di colore (BIPOC, dall’inglese «Black, Indigenous, People of Color») e per l’insieme della popolazione migrante il diritto di contribuire a scrivere la storia svizzera e chiedeva inoltre un’apertura istituzionale. In quest’ottica, la storia non è più una realtà lontana dal presente, che può essere studiata in modo distaccato e accademico e nella quale, volenti o nolenti, sono state commesse ingiustizie. Diventa una realtà che vive nel qui e ora – e in una democrazia postmigratoria la storia andrebbe scritta dall’intera popolazione residente.

Movimento per il potere interpretativo della storia e per la partecipazione

A Berna, il dibattito attorno alla questione della «Corporazione dei Mori» è cominciato sei anni prima delle proteste del movimento «Black Lives Matter», che nel 2020 avevano coinvolto il mondo intero. All’epoca, il dibattito postcoloniale in Svizzera non era che agli albori: in quegli anni nascono nuove reti nazionali contro il razzismo istituite esplicitamente da persone BIPOC e persone con retroterra migratorio: «Bla*SH – Netzwerk Schwarze Frauen», «Collectif Afro-Suisse», «Istituto Nuova Svizzera INES», «Berner Rassismusstammtisch» o «Unione dei media eritrei in Svizzera», solo per menzionarne alcune. Il loro lavoro si riallaccia ai decenni di lotta al razzismo condotta dalle generazioni precedenti di persone BIPOC, migranti e «secondos/secondas», ad altri movimenti sociali e all’operato dello Stato, che negli anni 1990 aveva lentamente iniziato ad attivarsi contro il razzismo.
Queste nuove voci portano con sé nuove prospettive, nuove esperienze e nuove rivendicazioni.
La riflessione approfondita sulla storia svizzera del razzismo, del colonialismo e della migrazione ha avuto una rilevanza particolare in tutto questo. Mentre il retaggio legato alla schiavitù e allo sfruttamento economico è stato un tema importante sin dal movimento terzomondista degli anni 1970, le voci più recenti hanno indagato il ruolo della cultura, dell’opinione pubblica, della scienza e dell’istruzione sotto il «colonialismo senza colonie» elvetico. È così emerso che la Svizzera è stata un’allieva modello in materia di antropologia razziale ed eugenetica, che il commercio di prodotti coloniali e l’architettura coloniale ne caratterizzavano la quotidianità e che innumerevoli zoo umani educavano i visitatori svizzeri alla bianchezza razzializzando le persone messe in mostra. Il repertorio culturale, gli archivi delle immagini, la narrazione storica, l’architettura e l’opinione pubblica connessi a questo retaggio producono effetti ancora oggi e attivano dicotomie razzializzanti, basate sul «noi versus gli altri»28.

Il nuovo movimento postcoloniale e postmigratorio è uscito dal quadro dell’assimilazione e dell’integrazione, rivendicando il potere interpretativo ufficiale.
Sul piano politico, dagli anni 1970 i regimi assimilazionisti e integrazionisti esortavano la comunità BIPOC, le persone migranti e i loro discendenti a identificarsi con la cultura dominante svizzera e a occuparsi soltanto in privato della loro storia, delle loro esperienze e delle loro forme di conoscenza – o, meglio ancora, a dimenticarle. In nessun caso queste persone erano però percepite come parte della Svizzera. Oltre a sviluppare strategie scientifiche, artistiche e attivistiche per rendere esperibili queste storie rimosse di razzismo, esclusione, solidarietà e resistenza, il nuovo movimento postcoloniale e postmigratorio usciva dal quadro dell’assimilazione e dell’integrazione, rivendicando il potere interpretativo ufficiale. Ha così dato sostanza alla rivendicazione della popolazione migrante e razzializzata, di contribuire a scrivere e di partecipare in prima persona alla storia della Svizzera, di avere un ruolo attivo nella storia e nella società29.
Come nel citato dibattito attorno alla questione della «Corporazione dei Mori», anche questa rivendicazione ha suscitato resistenze, scherno e aggressività. Al contempo, processi di cambiamento hanno trovato terreno fertile là dove ricerca, arte, attivismo e costruzione di comunità confluivano e hanno avuto un impatto sempre maggiore sulle istituzioni. Di fronte alla pressione internazionale sviluppatasi a seguito delle proteste del movimento «Black Lives Matter» nel 2020, la società dominante non è riuscita a conservare la propria posizione di resistenza e il dibattito postcoloniale ha raggiunto un ampio pubblico istituzionale. Da allora, a Ginevra, Zurigo e Berna si sono tenute mostre sul colonialismo e sul razzismo della Svizzera e sulle resistenze che hanno suscitato. Nel 2024 anche il Museo nazionale svizzero di Zurigo ha dedicato una mostra all’argomento. All’inaugurazione, la consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider ha riconosciuto il ruolo della Svizzera nel colonialismo, rompendo così con la dottrina vigente fino a quel momento, secondo cui la Svizzera non aveva avuto nulla a che fare con il colonialismo.

Razzismo strutturale invece di dignità umana

Il 21 settembre 2018 Paola De Martin, storica e designer, ha pubblicato sul sito Internet di INES una lettera aperta intitolata «Una bruciante sfocatura» rivolta all’allora consigliera federale Simonetta Sommaruga. L’autrice vi racconta la sua ricerca di chiarezza e verità nel contesto dell’illegalizzazione delle famiglie di lavoratori stagionali a partire dal 1934, in seguito all’introduzione della legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri (LDDS)30. Poiché il ricongiungimento familiare era vietato, per decenni centinaia di migliaia di famiglie sono state separate oppure costrette a nascondere i figli presenti illegalmente in Svizzera. Dopo aver illustrato gli anni di ricerca della verità, la vergogna e il silenzio all’interno della famiglia e nella società, De Martin scrive:
« Se la maggioranza della popolazione svizzera pensa che le violazioni dei diritti umani nei confronti degli stranieri in Svizzera non siano un tema svizzero, allora qualcosa deve cambiare. […] io non mi pongo come supplicante di fronte alla rappresentanza politica della Svizzera, ma come richiedente. Anche se il mio io ha un legame flebile con decine di migliaia di altri che adesso non si esprimono in questo modo, io finalmente devo farlo perché non abbiamo tempo all’infinito per guarire le nostre ferite sociali. Io chiedo:
che la sorte dei bambini di stagionali costretti alla clandestinità e il conseguente trauma subito dalle loro famiglie e dalla loro comunità in Svizzera diventi oggetto di un vasto e ben gestito dibattito storico su scala pubblica e promosso dal mondo politico;
che le violazioni dei diritti umani subite dagli stagionali siano riconosciute e scusate pubblicamente dalla più alta rappresentanza politica della Svizzera, anche se secondo la legge di allora queste violazioni si sono verificate in modo «legale». Serve un gesto simbolico di scuse, non basta ringraziare i lavoratori stranieri di allora per il loro contributo alla costruzione della Svizzera;
che si creino le condizioni affinché chi ha subito un tale sopruso venga risarcito finanziariamente. I traumi hanno consumato le nostre forze, quelle stesse forze che mancavano quando ne avremmo avuto bisogno per vivere una vita dignitosa.»
La lettera di De Martin è una delle numerose testimonianze, note e meno note, che dimostrano come il razzismo strutturale nella storia e nel presente della Svizzera calpesti la dignità umana. Nel caso delle «famiglie di lavoratori stagionali costrette all’illegalità» sono stati palesemente violati i diritti umani politici, sociali e culturali ed è stata sistematicamente limitata la possibilità di condurre una vita dignitosa per centinaia di migliaia di persone31. Mentre nel caso degli internamenti amministrativi la Svizzera ufficiale ha riconosciuto negli ultimi dieci anni – meglio tardi che mai – l’ingiustizia storica, avviato una rielaborazione storica e adottato prime misure di risarcimento, nel caso delle «famiglie di lavoratori stagionali costrette all’illegalità» questo non è avvenuto. Per quale motivo? Perché queste famiglie non erano considerate parte della società – figuriamoci dello Stato –, in quanto straniere al momento dell’ingiustizia e ree di avere violato la legge. Invece di interrogarsi sull’ingiustizia strutturale sancita nella LDDS e radicata nella prassi amministrativa e di assumersene la responsabilità, lo Stato ha preferito addossare la colpa e la vergogna alle vittime32.
La lettera di De Martin dimostra però anche che il silenzio su questa violenza non soltanto tiene vivi e rafforza i traumi, ma costituisce pure una violazione specifica della dignità umana. Dover dimenticare la violenza subita e reprimere la verità per adeguarsi alla società dominante raddoppia la violenza. Al contrario, la lotta per la memoria, la verità e il riconoscimento è un passaggio fondamentale per (ri)sentirsi a tutti gli effetti un essere umano e parte della società. La ricerca sui genocidi e altri crimini contro l’umanità evidenzia quanto sia cruciale, per le vittime, poter condividere la propria esperienza e che quest’ultima venga riconosciuta come verità – che si tratti delle lettere dal ghetto di Varsavia, dei tribunali pubblici della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, del lavoro della fondazione Naschet Jenische o, attualmente, dei «Gaza Monologues».
Memoria e riparazione: verso una democrazia postmigratoria più forte
Se da un lato un’ampia presa di coscienza della violenza razzista presente nella storia svizzera è vista con favore, dall’altro si pone la domanda di come passare dalla conoscenza al cambiamento, dalla memoria alla riparazione33. Secondo gli approcci della giustizia di transizione e della giustizia riparativa, applicati ad esempio dopo le guerre civili, i casi di violenza storica non richiedono soltanto una rivisitazione in chiave critica del passato, la presentazione di scuse per le ingiustizie commesse o la condanna dei colpevoli, ma anche misure che abbiano un impatto sul presente e sul futuro, al fine di compensare i danni e gli svantaggi strutturali e di impedire il ripetersi delle medesime ingiustizie34.
La rivendicazione di iscrivere la propria storia nella storia della Svizzera è un atto profondamente politico, se si considera l’esclusione strutturale di determinate persone.
Nel 2021 Paola De Martin ha fondato, insieme a persone con cui condivide il percorso e la sofferenza e ad alleati solidali, l’associazione TESORO, attraverso la quale porta avanti le rivendicazioni esposte nella sua lettera35. Il postulato presentato alla Città di Berna, il movimento postcoloniale e postmigratorio e l’associazione TESORO sono accomunati dall’obiettivo di rivendicare una storia «diversa» e anche il diritto di raccontare in prima persona questa storia. Tenuto conto della rimozione e dell’amnesia strutturali, nell’ottica dei diritti umani non si tratta soltanto di analizzare scientificamente l’ingiustizia storica, di presentarla all’opinione pubblica e sensibilizzare così la popolazione. Si tratta anche di dare alle vittime e agli esperti biografici dell’ingiustizia la possibilità di posizionarsi quali soggetti storici e concittadini democratici e di contribuire a scrivere la storia diventandone parte attiva.
La rivendicazione di iscrivere la propria storia nella storia della Svizzera è un atto profondamente politico, se si considera l’esclusione strutturale di determinate persone dalla visione storica collettiva e dai processi decisionali democratici. Al contempo, offre la possibilità di avviare un processo di riparazione che coinvolga l’intera società e di dare a relazioni danneggiate una forma democratica. Questo processo richiede tuttavia il superamento delle barriere politiche e istituzionali erette attorno alla sovranità interpretativa della storia.
Mark Terkessidis, autore tedesco di origine greca, stabilisce un importante nesso tra la politica della memoria e le fondamenta democratiche di una società. Secondo lui, «il riaffiorare di ricordi ha sempre a che fare con il senso di appartenenza. Soltanto chi ha un senso di appartenenza alla comunità incontestabile può articolare i propri ricordi, metterli in gioco, utilizzarli in modo mirato, usarli per protestare»36. In altre parole, una comunità democratica deve negoziare pubblicamente la memoria di tutti coloro che riconosce come parte di sé. Chi è la Svizzera? Chi ne fa parte? Quale memoria fa stato? E chi decide in merito?
Un dibattito sul diritto alla memoria e alla riparazione sarebbe, alla luce del razzismo storicamente radicato, un passo verso il rafforzamento della democrazia postmigratoria. Mantenere lo statu quo, invece, significherebbe reiterare la violenza strutturale e aumentare il già enorme deficit democratico.