TANGRAM 49

Famiglia, forse

La scrittrice e artista Melinda Nadj Abonji, nata nell’ex Jugoslavia, ha recitato il testo che segue il 4 giugno a Berna in una performance congiunta con la pianista Simone Keller in occasione dei festeggiamenti per i 30 anni della Commissione federale contro il razzismo.

1 Il funzionario della polizia degli stra- nieri incaricato del mio caso si chiamava Weidmann. Me lo sono immaginato spesso, seduto alla macchina da scrivere, le dita che pigiano sui tasti, in pace con sé stesso perché non fa altro che quello che fanno centinaia e migliaia di altri come lui: eseguire la legge. Anche se conosco il suo nome, non so che faccia abbia, perché vedo soltanto le sue dita che scrivono a macchina, in un ufficio della Kaspar- Escher-Haus. Presumo che anche lui non vedesse alcun volto davanti a sé, quando scriveva a macchina il mio nome e quello di mio fratello. Eravamo bambini jugosla- vi, una cosa che lo agitava, lo preoccu- pava, ma che gli permetteva anche di dare il suo contributo alla causa comu- ne: lottare contro l’«inforestierimento» della Svizzera. È strano sapere come si chiama colui che, in nome di un’autorità, ha influito per anni come nessun altro sulla nostra vita. Un burocrate assurto a dio del fato. È un caso che si chiamas- se Weidmann – come il Weidmannsheil, il saluto tra cacciatori per augurarsi successo venatorio. E successo, il mio Weidmann, lo ha avuto, perché tutto quello che doveva fare era applicare i duri termini della legge e suggellarli con il suo nome. Come tutti gli altri. La polizia e gli stranieri. Un accoppiamento di sostantivi. Come bistecca e sangue. Lume e cande- la. Risale al 1917 l’istituzione in Svizzera per diritto di necessità della polizia degli stranieri in reazione diretta alla Rivoluzione di ottobre. Ma quale Rivoluzione? I comunisti? Persone non grate da queste parti. Non so se il mio funzionario fosse un anticomunista, so per certo che era un combattente zelante, contro di me, mio fratello e centinaia di altri bambini. Contro l’«inforestierimento», un concetto inventato in Svizzera. Per poter cacciare meglio. Weidmannsheil.

2 Le famiglie svizzere hanno il privilegio della famiglia, mentre la vita delle persone straniere è determinata dal ricongiungimento familiare. Così il nucleo familiare – quell’unità inviolabile, glorificata dai conservatori e dai nazionalisti di destra come cellula germinale dello Stato – diventa appannaggio di chi ne fa parte o dovrebbe farne parte. L’appartenenza (allo Stato) diventa quindi la condizione per avere una famiglia: l’opposto di quanto prevede l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che garan- tisce a ogni persona il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il linguaggio della burocrazia politica produce parole amare e crudeli nella loro banalità piccoloborghese, che creano le condizioni per trattare gli esseri umani in modo disu- mano, in virtù di una presunta legalità. Il ricongiungimento familiare diventa così un concetto tradotto in paragrafi capace di far sparire il trauma. Ma che cosa succede PRIMA del ricongiungimento? E tutte quelle famiglie cui si chiede di stare separate per mesi o anni, ne vogliamo parlare? La maggioranza di una società di appartenenza, che si accontenta di termini come ricongiungimento familiare perché ne trae anche beneficio, perché l’appartenenza è la più perfetta delle droghe, in quanto crea l’illusione della legalità: è legittimo che alcuni abbiano diritto a una famiglia e altri no.

E i bambini? Stanno da qualche parte, più o meno abbandonati al loro destino; se sono fortunati vengono accuditi da familiari premurosi, ma sempre sepa- rati dai loro genitori. Ricongiungimento familiare, ne vogliamo parlare o è meglio di no? Che cosa significa vedere i propri genitori ogni tanto e poi dimenticarli di nuovo? Non riconoscerli più? Vogliamo ascoltare queste storie dietro il concetto di ricongiungimento familiare, storie che testimoniano di un trauma indelebile e indicibile per i genitori come per i figli? La grazia del ricongiungimento familiare, finalmente concessa dalle autorità con tanto di timbro e fattura, i bambini nuovamente separati (nel mio caso da mia nonna, da mio fratello, dagli anima- li, da un cielo infinito, da una lingua, da tutte le mele cadute dagli alberi, chiamate alma); la grazia dell’ingresso nel Paese, l’inizio di una nuova storia di sofferenza, intitolata «la famiglia impara a conoscer- si». Ma da dove cominciare? Dalla lingua, preferibilmente, dalle singole parole: famiglia, forse.

3 Una pioggia primaverile cade a dirotto e poi cessa all’improvviso... stanno bevendo insieme una bottiglia di birra, brindando alla loro decisione, alla nostra fortuna! Vendono le loro galline. Imbal- lano i bicchieri, le stoviglie, decidono che cosa portare con sé e che cosa no. Lui spegne il boiler per l’ultima volta, lei ripiega una coperta, vi si inginocchia sopra e la lega in modo che occupi il minore spazio possibile. Lei esita, lui la incoraggia, le asciuga con un bacio le lacrime sul viso. Quando chiudono la porta, il bambi- no chiede: «Che cosa ne sarà di noi, anyu, mamma?». Lei lo guarda, gli accarezza il viso. Lui solleva il bimbo tra le braccia: «Lo sai: verremo a prendervi il più presto possibile». «Tra quante notti?», chiede il bambino aggrappandoglisi al collo. La domanda resta senza risposta. Lui rimette il bambino a terra, si carica i bagagli in spalla, «andiamo, è tardi». Lei guarda il bebè che dorme, prende la valigia con una mano e con l’altra spinge la carrozzina. Si mettono in viaggio.

Non avevano fatto i conti con la legge. Oppure sì, ma non pensavano fosse vero. Lei dice che non può essere. Se lo fosse, allora faranno sicuramente delle eccezioni, le risponde lui. Un amico da più tempo in Svizzera fornisce loro spiegazioni. Sul ricongiungimento familiare. Non voglio- no i nostri figli. Fra un paio di anni, forse, se facciamo tutto nel modo giusto. Ma perché, chiede lei, non dovremmo fare le cose nel modo giusto? Dopo tutto siamo venuti qui proprio perché le nostre vite erano così... sbagliate. Come si fa a non volere i bambini? Come possono vietar- ci di portare i figli? Tu mi hai detto che sarebbe stato soltanto per poco tempo, dice lei guardando il marito. Non lo sape- vo nemmeno io, credimi… non mi credi?

Invece di rispondere, lei lo incalza con altre domande. Ma perché? Perché gli altri possono tenere i figli e noi no? Siamo genitori... o no? Come possiamo fare i genitori se i nostri figli non posso- no stare con noi? Che cosa ne pensa la chiesa? Da noi non c’era una legge che vietava i figli, o forse sì? Non smette di fare domande, anche se i due uomi- ni fingono di non ascoltarla più. Non abbiamo venduto i mobili e tutto il resto? Non abbiamo già detto sul treno che ci mancano i bambini? A me mancano, ad ogni modo, e come farò a lavorare così, se penso sempre ai miei figli? Se stan- no bene? Come farò a superare tutto questo, sapendo che potrebbero volerci anni, potete dirmelo? Come farò a dormire, a riposare, a mangiare, a vestirmi? Non può essere che vogliano questo, vero? O forse sì? Che viviamo una vita così? Non siamo forse esseri umani? Che cosa siamo, se non esseri umani? Abbiamo o non abbiamo diritti?

E quando lei inizia a parlare in modo sempre più concitato, ripetendo come un mantra «ma mi state ascoltando?» il marito non ce la fa più. Dà un pugno sul tavolo da campeggio, che va in mille pezzi, i piatti cadono sul pavimento di legno e tutti e tre si chinano a raccoglierne i cocci per metterli in un sacchetto di carta. L’amico si congeda, vergognandosi della sua codardia. Il marito abbraccia la moglie, le dice che andrà tutto bene, che devo- no soltanto tenere duro per un po’, fino a quando la fortuna non inizierà a girare. Non possiamo tornare indietro, dice lui, attorcigliandosi i baffi. Ma lei non risponde. Un solo pensiero le frulla di conti- nuo nella testa, sempre la stessa frase: csapdában vagyok. Sono in trappola.