Autore
Faten Khazaei è professoressa assistente al Dipartimento di scienze sociali dell’Università di Northumbria nel Regno Unito. faten.khazaei@northumbria.ac.uk
Ho scoperto che il sessismo e l’eterosessismo derivano dalla stessa fonte del razzismo… Non posso permettermi il lusso di lottare contro un’unica forma di oppressione… E non posso neanche permettermi di scegliere su quale fronte devo combattere queste forze discriminatorie. Sembrano volermi distruggere ovunque si manifestino. E quando si manifesteranno per distruggere me, non tarderanno a manifestarsi per distruggere anche voi.
(Audre Lorde, 1983, traduzione personale).
Nel suo celebre testo del 1983 destinato alle donne bianche «There is no hierarchy of oppressions», Audre Lorde, attivista e scrittrice afroamericana e lesbica, sottolinea che qualsiasi iniziativa finalizzata ad abbattere un sistema oppressivo focalizzandosi su un’unica dimensione è destinata a fallire. Tra le pioniere della teoria di un approccio che oggi conosciamo con il nome di intersezionalità (Crenshaw 1989), l’autrice mette l’accento sull’interdipendenza dei rapporti di potere, mostrando come il razzismo s’intrecci con altri rapporti di dominio, in particolare il sessismo, il classismo, l’abilismo o l’eterosessismo, ed esorta a considerare l’insieme di queste dimensioni in tutte le battaglie contro i sistemi oppressivi.
La teoria dell’intersezionalità, nata da un movimento critico all’interno del femminismo volto a contestare la categoria «noi donne» quale soggetto politico del femminismo, è stata formulata per affermare che il gruppo delle donne è permeato da altri rapporti di potere (Crenshaw 1989). Per chi sostiene questa teoria, un femminismo bianco e di classe media non può rappresentare la voce, le esperienze e le sfide di tutte le donne. Se ci sforziamo unicamente di smascherare il sessismo, non potremo cogliere, capire, mostrare e, in fondo, legittimare la vita e le esperienze di molte donne. L’intersezionalità permette quindi di rivelare ciò che non è visibile quando le categorie del genere e della razza, in particolare, sono trattate come fossero separate l’una dall’altra. Se ignoriamo il modo in cui il genere e la razza si alimentano a vicenda, non riusciremo a capire realmente come funzionano l’uno e l’altra.
Nelle riflessioni che seguono, mi propongo di esaminare il ruolo in Svizzera della violenza contro le donne nella tesi della presunta incompatibilità culturale degli stranieri. Cercherò in seguito di mostrare come la relazione intersezionale tra sessismo e razzismo, che porta a razzializzare le violenze di genere in Svizzera, affondi le sue radici nel pensiero coloniale.
Uno degli argomenti retorici su cui si fonda la costruzione del nazionalismo svizzero consiste nel mito di un piccolo Paese alle prese con l’Überfremdung. Questa nozione tedesca è tradotta talvolta con sovrappopolazione straniera e talvolta, più correttamente, con inforestierimento. Fa riferimento sia al numero di stranieri che vivono in Svizzera sia al presunto pericolo culturale di una rappresentanza eccessiva degli stranieri all’interno della popolazione. Il termine Überfremdung, comparso inizialmente nell’opuscolo di un’istituzione di «assistenza ai poveri» del Cantone di Zurigo nel 1900, è riemerso nel dibattito politico svizzero in diversi periodi storici. Apparso in Europa alla vigilia della Prima guerra mondiale, ha seguito la dinamica dell’ascesa del nazionalismo.
Dall’istituzione della polizia degli stranieri a partire dal 1917 nel contesto del dopoguerra e durante gli anni 1960 e 1970, contrassegnati dal dibattito sulla crescente immigrazione in Svizzera, la retorica dell’Überfremdung è stata applicata di volta in volta agli ebrei provenienti dall’Europa orientale, ai comunisti, ai lavoratori stagionali originari dell’Italia e della Spagna, nonché ai cittadini dell’ex Iugoslavia e della Turchia immigrati a partire dagli anni 1980 – per riaffiorare nuovamente nel dibattito pubblico contro l’immigrazione dei musulmani (Dahinden et al. 2014).
L’istituzione della libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Unione europea durante gli anni 1990 ha riacceso questi dibattiti per motivare la limitazione dell’immigrazione di persone provenienti da Paesi non europei, ossia i cosiddetti Stati terzi. Per giustificare il trattamento differenziato degli immigrati nelle politiche migratorie, previsto dal «modello dei tre cerchi», il Consiglio federale ha fatto propria la retorica dell’assimilabilità e della differenza culturale. Questo modello riserva un trattamento di favore alle persone provenienti dai Paesi dell’Unione europea e dell’Associazione europea di libero scambio, ponendo invece limitazioni e restrizioni a quelle provenienti da Paesi non occidentali. Secondo la retorica adottata dal Consiglio federale per giustificare il modello, una presunta vicinanza culturale con l’Europa garantirebbe una maggiore assimilabilità delle popolazioni migranti.
A essere evocati in modo specifico per giustificare una presunta incompatibilità culturale tra gli svizzeri e questi «altri» razzializzati e alterizzati non sono soltanto gli aspetti culturali degli stranieri menzionati in termini generici, ma anche le relazioni di genere. La violenza contro le donne è uno dei temi in cui questa presunta incompatibilità culturale degli immigrati è stata denunciata con maggior veemenza, il che ha contribuito al processo di razzializzazione di diversi gruppi sociali, considerati indesiderati in diversi Paesi occidentali.
In Svizzera, il dibattito pubblico sull’Überfremdung fa emergere considerazioni sulle violenze inflitte alle donne. Il bisogno di proteggere l’integrità delle donne e delle ragazze svizzere è servito ad esempio a giustificare i cartelli che illustravano la minaccia rappresentata dagli immigrati italiani per i costumi e i valori svizzeri (Maiolino 2010). Il dibattito sull’integrazione fa riferimento a questa disparità tra uomo e donna anche a titolo di principio costituzionale svizzero e di condizione per valutare il grado d’integrazione dei candidati al diritto di soggiorno.
La retorica dell’Überfremdung, sempre più presente nel dibattito pubblico, strumentalizza le rivendicazioni femministe imperniate sulla parità di genere per giustificare l’esclusione degli stranieri e riprodurre il razzismo. Questa retorica ha riunito diversi gruppi, talvolta opposti sullo scacchiere politico, ma uniti per «salvare le donne del Terzo mondo» dalla loro condizione «straordinariamente» non egualitaria (Mohanty 1984). Questa retorica permette quindi non soltanto di evocare la questione della differenza e della gerarchia tra i gruppi umani, ma anche di presentare il razzismo come un’iniziativa «rispettabile» (Antonius 2001). L’idea di salvare le donne del Terzo mondo dalla loro condizione non è infatti percepita nella sua dimensione razzista, ma come uno dei progetti politici più nobili, basato su una descrizione esatta della realtà, in base alla quale queste donne sarebbero vittimizzate proprio dalla loro cultura. Si dà così per scontato che la violenza contro le donne sia appannaggio degli «altri».
Il dibattito passa inoltre sotto silenzio l’origine coloniale di questa retorica. Sin dagli inizi del periodo coloniale, le violenze contro le donne sono state considerate un motivo che giustificava la presenza coloniale, presentandola come una missione civilizzatrice in società arretrate (Spivak 1988; Abu-Lughod 2013; Collier et al. 1995). Spivak (1988) ha esaminato l’importanza dell’argomento in base al quale i coloni britannici salvavano le donne indiane dai loro uomini. Alla stessa stregua, per Collier e i suoi colleghi (1995), a partire dal XIX secolo, la Francia ha utilizzato lo statuto delle donne in Algeria come indicatore del grado d’inciviltà delle leggi algerine per giustificare la sua presenza coloniale.
La mobilitazione di queste rappresentazioni contro gli stranieri, in particolare quelli di religione musulmana, si è manifestata in Svizzera in occasione di diverse campagne politiche, comprese quelle per il divieto di costruire minareti nel 2009 e per l’espulsione dei criminali stranieri nel 2010, come pure, a livello cantonale, per il divieto del burqa in Ticino nel 2013 e la nuova legge sulla laicità dello Stato a Ginevra nel 2019. Tutti questi esempi mostrano la continuità e l’attualità del ricorso al genere nella razzializzazione delle persone di fede musulmana in Svizzera.
Molte di queste campagne politiche hanno sfruttato le immagini di donne musulmane velate per illustrare la loro incompatibilità culturale con la Svizzera (Michel 2015). Sono ancora impresse nella nostra memoria le immagini di una donna che indossa il burqa e di minareti neri che invadono la bandiera svizzera: «la donna musulmana» si è così ritrovata al centro del dibattito pubblico. Queste immagini esprimono l’idea che il dominio maschile o l’oppressione delle donne siano caratteristiche della religione musulmana e contrastino con i valori della democrazia liberale della Svizzera. La mobilitazione della parità di genere o la questione delle violenze nei confronti delle donne sono così circolate nello spazio, tutto svizzero, del «colonialismo senza colonie» (Purtschert et al. 2016).
A causa dell’amalgama tra religione (in particolare l’Islam) e dominio maschile, gli atti di violenza di genere sono ormai considerati atti motivati dalla religione e/o patologie culturali o tradizionali estranee all’Occidente. Quando la violenza contro le donne riguarda coppie svizzere, si tende a spiegarla con caratteristiche individuali degli autori – problemi psicologici oppure consumo di alcool o di sostanze illegali. La violenza è quindi affrontata dal punto di vista dell’individuo e non della cultura o della società. In altre parole, gli atti violenti commessi tra svizzeri non ci dicono nulla sulla cultura degli svizzeri o sui rapporti di genere in Svizzera. Viceversa, gli atti di violenza commessi tra i migranti non sono considerati dal punto di vista dell’individuo, bensì come atti rappresentativi della loro cultura o della loro religione (Khazaei 2023). Di conseguenza, le politiche e il dibattito pubblico in Svizzera tendono a focalizzarsi sulla migrazione e sulla differenza culturale per capire e spiegare la violenza di genere. Alcune forme di violenza nei confronti delle donne che, a priori, interessano maggiormente le popolazioni migranti, come il matrimonio forzato e le mutilazioni genitali femminili, occupano quindi spesso uno spazio di primo piano nelle politiche pubbliche.
Le conseguenze di questa situazione – la denuncia crescente della violenza contro le donne unicamente nei gruppi razzializzati – non vanno soltanto a scapito dei membri di questi gruppi. Puntare il dito contro di loro per denunciare la violenza di genere comporta una razzializzazione di questo tipo di violenza e questo atteggiamento, inevitabilmente, finisce per rendere impossibile una protezione adeguata di tutte le vittime. A farne le spese sono anche le donne svizzere: se si lamentano della violenza del partner svizzero davanti a un organo ufficiale, capita che le loro parole siano sminuite e prese meno sul serio, dal momento che i fatti denunciati non corrispondono alle abituali rappresentazioni razzializzate di questo genere di violenza (Khazaei 2023).
Occorre quindi tornare alla profezia di Audre Lorde e alla necessità di associare la resistenza al razzismo alla resistenza al sessismo e agli altri rapporti di potere. Come spiegato da Christine Delphy (2001: 89), la questione del rapporto tra sesso e genere non è soltanto parallela a quella del rapporto tra subdivisione e gerarchia, ma è la stessa cosa. Da questo punto di vista, il genere in quanto primo significante della gerarchia tra gli esseri umani rende naturale l’idea stessa di superiorità/inferiorità o alterità. L’invenzione della razza, alla stessa stregua dell’invenzione del genere, è stata un momento cruciale nello sviluppo delle relazioni di superiorità e inferiorità implicanti il dominio. Una certa concezione dell’umanità si fonda sull’idea che le popolazioni del mondo possano essere suddivise in due gruppi, di cui uno è superiore all’altro. L’intersezionalità ci mostra che ogni riproduzione della gerarchia e dell’alterità si riduce sempre alla stessa questione e che il sessismo si perpetua riproducendo le relazioni razziste e coloniali. Ci permette di osservare come il razzismo rafforzi il sessismo e poggi su di esso e come, viceversa, il sessismo alimenti e legittimi il razzismo. Per concludere, l’intersezionalità ci insegna che qualsiasi iniziativa per contrastare questi sistemi oppressivi può avere una chance di successo soltanto se li combatte insieme.
Abu-Lughod, L. (2013). Do Muslim Women Need Saving? Cambridge, Harvard University Press
Antonius, R. (2001). « Un racisme ‹ respectable › ». In Les relations ethniques en question. eds. J. Renaud, L. Pietrantonio et G. Bourgeault, p. 253-271. Montréal : Les Presses de l’Université de Montréal
Collier, J. F, Maurer, B. et Suarez‐Navaz, L. (1995). « Sanctioned Identities : Legal Constructions of Modern Personhood », Identities 2, no 1-2, p.1-27
Crenshaw K. (1989). « Demarginalizing the Intersection of Race and Sex : a Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics », The University of Chicago Legal Forum, 140, p. 139-167
Dahinden, J., Duemmler, K. et Moret, J. (2014). « Disentangling Religious, Ethnic and Gendered Contents in Boundary Work : How Young Adults Create the Figure of ‹ the Oppressed Muslim Woman › », Journal of Intercultural Studies, 35 (4), p. 329-348
Delphy C. (2001). Penser le genre. L’ennemi principal. Tome 2. Paris, Éditions Syllepse
Khazaei, F. (2023). « La colonialité du genre, ou comment ‹ sauver › les victimes migrantes des violences conjugales », ethnographiques.org, 44 (2022), [en ligne]
Lorde, A. (1983). « There Is No Hierarchy of Oppressions », Bulletin : Homophobia and Education, Council on Interracial Books for Children
Maiolino, A. (2010). « Vierzig Jahre Schwarzenbach-Initiative – Für Hunde und Italiener verboten ». Die Wochenzeitung, 3rd June. Available at : https://www.woz.ch/-207d
Michel, N. (2015). Sheepology : « The Postcolonial Politics of Raceless Racism in Switzerland ». In Postcolonial Studies 18 (4), p. 410-426
Mohanty, C. T. (1984). « Under Western Eyes : Feminist Scholarship and Colonial Discourses », Boundary 2, 12 (3), p. 333-358
Purtschert, P., Falk, F. et Lüthi, B. (2016). « Switzerland and ‹ Colonialism without Colonies ›, Reflections on the Status of Colonial Outsiders ». Interventions; International Journal of Postcolonial Studies 18, No. 2, p. 286-302
Spivak, G. C. (1988). « Can the Subaltern Speak ? », in GROSSBERG Lawrence et NELSON Cary (eds.), Marxism and the Interpretation of Culture. Urbana, University of Illinois Press, p. 271-313