TANGRAM 44

Lotta contro il complottismo e polemiche identitarie

Autor

Cédric Terzi è sociologo, docente di scienze dell’informazione e della comunicazione all’Università di Lille e ricercatore al Centro di studio dei movimenti sociali della Scuola di studi superiori in scienze sociali (CEMS/EHESS) di Parigi. cedric.terzi@ehess.fr

Intervista a cura di Samuel Jordan

Secondo Cédric Terzi, il complottismo è assurto a questione politica nel 2001. Il sociologo lo considera un rapporto polemico che oppone due parti: gli accusatori (i lucidi) e gli accusati (i fessi) – un rapporto inquisitorio appoggiato dalle autorità che lascia poco spazio alla discussione democratica e contribuisce ad alimentare il razzismo.

Come definirebbe il complottismo?

Il complottismo è una questione politica recente, impostasi da una ventina d’anni a seguito degli avvenimenti dell’11 settembre 2001. Si tratta di un termine militante, usato per denunciare una situazione pericolosa, per metterne in luce la gravità e unire le forze e le risorse necessarie per combatterla. Questo neologismo deriva dai complotti, che esistono da quando le società si sono organizzate politicamente. Un complotto presuppone che individui o gruppi di individui fomentino manovre occulte. Il complottismo nasce dalla mobilitazione di coloro che denunciano tesi complottiste e che si sono dati come missione di mettere in guardia i propri contemporanei dalla diffusione massiccia di false credenze e ragionamenti menzogneri e dalle conseguenze, deleterie per la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche, che ne derivano. A forza di insistere, sono riusciti a trasformare in una minaccia gravissima per la sopravvivenza stessa della democrazia qualsiasi obiezione ai modi comunemente ammessi di capire e spiegare un fatto. Secondo loro, la tutela della democrazia richiederebbe la messa in atto di misure di prevenzione radicali.

Rifiuta quindi di ridurre il complottismo al solo fatto di diffondere false credenze con uno scopo ben preciso. Propone invece di descriverlo come uno scontro fra attori diversi…

La mia competenza, in quest’ambito, è quella di un sociologo che si occupa di problemi sociali. Sono fermamente convinto che una forma di vita sociale sia caratterizzata dai problemi che si pone, dal modo in cui li concepisce e dai mezzi che sviluppa per affrontarli. A questo proposito, osservo che il complottismo si è costituito come un rapporto polemico che oppone due parti: quella degli accusatori a quella degli accusati. Da un lato ci sono i militanti (persone «strambe»), che contestano la versione dei fatti comunemente accettata (quella che chiamano la «versione ufficiale») e pretendono di rivelare trame occulte spesso legate a poteri politici e finanziari. Dall’altro ci sono coloro che denunciano le tesi complottiste e si affannano per smascherare il carattere menzognero di queste versioni alternative, fondate su ragionamenti spesso qualificati come «paranoici». Alla fine, ogni parte accusa l’altra di minare i valori democratici e ogni parte invita il pubblico ad adottare le misure che s’impongono per regolamentare o risolvere il problema. Descrivendo le interazioni tra questi tre gruppi di attori, mi propongo di contribuire a una migliore comprensione di come sono organizzate le forme di vita sociale in cui viviamo. Tuttavia, constato che, quando accettano di decidere sulla definizione di quelli che sono i problemi della società, i ricercatori accantonano il lavoro scientifico e si addentrano nella lotta politica, polarizzata, su questi temi. Il risultato è una sovrapposizione, almeno parziale, di ciò che è «politico» a ciò che è «scientifico».

Quindi, secondo Lei, i termini «complottismo» e «teoria del complotto» non sarebbero riferibili alla stessa realtà.

Questi termini sono ormai diventati intercambiabili, il che è deplorevole. Come ho detto, «complottismo» designa un problema sociale o una questione politica; è un termine prettamente relazionale. Il termine «teoria del complotto», invece, è di natura completamente diversa: designa un insieme di false credenze che necessitano di essere elencate. Ecco un esempio: concretamente, chi denuncia tesi complottiste ricorre ai sondaggi d’opinione per spiegare statisticamente la portata del problema e convincere le autorità pubbliche a intraprendere il necessario per porvi rimedio. L’uso dei sondaggi d’opinione per lanciare l’allarme è efficace, poiché permette di compiere ben tre azioni decisive per la definizione del complottismo: 1. associare una categoria di affermazioni errate a una categoria della popolazione, designata come gruppo a rischio; 2. provocare una larga frattura, segnatamente fra quelli che restano lucidi e gli stupidi caduti nella trappola cospirazionista; 3. designare categorie della popolazione che credono o pensano in modo errato.

Se capisco bene, considera questi sondaggi come un ostacolo alla discussione pubblica e quindi al buon funzionamento della democrazia liberale…

Il ricorso a questi sondaggi fornisce una definizione polemica del «complottismo». Divide la popolazione in due campi antagonisti e inconciliabili. Di conseguenza, non lascia spazio alcuno a discussioni o controversie e rappresenta di fatto un pericolo per la democrazia liberale. Questo modo di concepire il complottismo limita drasticamente lo spettro delle azioni che potrebbero essere intraprese per fronteggiarlo. Una volta che i sondaggi hanno permesso di identificare le popolazioni cosiddette «a rischio», non resta che proporre (o imporre) misure educative per insegnare loro a conoscere la verità e a pensare correttamente. Non sorprende, quindi, che i media generalisti e le istituzioni scolastiche si ritrovino in prima linea nelle iniziative anti-complottiste. Gli uni con una moltitudine di rubriche, trasmissioni e siti Internet di verifica dei fatti (fact checking) che promettono di scoprire le notizie false e chiarire le situazioni più confuse. Gli altri con numerose azioni intese a sviluppare le capacità di pensiero critico di allievi che altrimenti rischierebbero di soccombere alla superficialità del pensiero complottista.

Quindi, secondo Lei, le iniziative anti-complottiste non producono nulla di buono per la convivenza sociale…

Simili misure rischiano di alimentare le controversie piuttosto che appianare la situazione. Da un lato, l’alleanza tra chi denuncia il complottismo e le autorità governative, le istituzioni pubbliche dell’insegnamento e della ricerca e i media generalisti non può che rafforzare il sospetto di una collusione d’interessi fra potenti per nascondere realtà imbarazzanti o compromettenti. Dall’altro, in questa polemica, quelli che denunciano tesi complottiste e i loro alleati hanno torto a immaginarsi come unici detentori del monopolio della lucidità e del pensiero critico, poiché sono proprio queste le qualità che i gruppi da loro etichettati come cospiratori rivendicano.

Lei sostiene quindi che si deve poter essere critici nei confronti delle azioni dei potenti e delle autorità pubbliche senza necessariamente essere equiparati a un complottista. Ma che cosa dire quando i «pensieri alternativi» prendono specificamente di mira le minoranze etniche o religiose? Non ritiene pericolosa, per l’equilibrio delle nostre società, l’ascesa della teoria della «grande sostituzione» o la rinascita del pamphlet antisemita «Protocollo dei savi Anziani di Sion»?

Capisco la Sua preoccupazione. Viviamo in un’epoca di divisioni e scontri che favorisce il dilagare di una retorica votata alla violenza e all’odio. Dobbiamo naturalmente impegnarci, ora più che mai, ad accertare i fatti. Per quanto riguarda gli esempi citati, un modo per farlo è quello di ripercorrere la storia del «Protocollo dei savi Anziani di Sion» e della teoria della «grande sostituzione» per dimostrare che il primo è un falso antisemita e il secondo è un’odiosa menzogna. Tuttavia, questo lavoro di confutazione è stato fatto da tempo ed è disponibile in innumerevoli forme, ma per quanto ne so io, non è stato sufficiente a fermare o rallentare la diffusione di simili teorie. Se ci si accontenta di dimostrare la falsità e la pericolosità di testi e idee come questi, senza tenere conto dei rapporti sociali che ne favoriscono la diffusione, si rischia di attizzare polemiche e antagonismi e quindi di rafforzare la determinazione di chi li diffonde.

Che cosa risponde a chi afferma che il razzismo è fortemente alimentato da contenuti complottisti?

Il razzismo e, più in generale, gli scontri identitari – con il disprezzo, l’ostilità e persino la violenza che fanno da corollario – non possono essere ridotti ad atti (ciò che si fa) o dichiarazioni (ciò che si dice). Fanno invece parte, in un senso molto più ampio, di un ethos, di un modo di comportarsi e relazionarsi con gli altri. Sono numerosi gli indizi che lasciano intravedere un indurimento dei rapporti sociali, una degenerazione delle discussioni in polemiche, un inasprimento dei conflitti politici che regolarmente sfociano in duri scontri e, infine, una moltiplicazione delle attribuzioni identitarie. La maniera in cui il complottismo è concepito oggi non fa che aggravare queste dinamiche di scontro. Dal momento che il complottismo è una lotta in cui categorie identificabili della popolazione si attribuiscono reciprocamente false credenze e modi di pensare errati, sono soddisfatte tutte le condizioni per aprire un nuovo fronte di opposizione identitaria e alimentare il razzismo – a maggior ragione quando i belligeranti si considerano a vicenda una minaccia reale.