Autor
Pascal Mahon è professore di diritto costituzionale svizzero e comparato all’Università di Neuchâtel. Pascal.Mahon@unine.ch.
Intervista a cura di Samuel Jordan
Si può ancora parlare di «razza» nel XXI secolo? Considerando che non ha valore scientifico, questo termine deve davvero continuare a figurare nei testi giuridici nazionali e internazionali? Il Servizio per la lotta al razzismo ha affidato a esperti uno studio sulla nozione di «razza» nel diritto svizzero. Diamo la parola a Pascal Mahon, uno dei tre autori della recente ricerca.
A livello storico, quando è andata affermandosi la nozione di «razza»?
Il termine «razza» ha un’etimologia incerta che rende più complesso il suo significato e delicato il suo uso contemporaneo. In un primo momento questa parola era utilizzata per parlare dei membri di una stessa discendenza familiare. La nozione di «razza umana» è stata utilizzata dal XVIII secolo per distinguere gruppi umani, sulla scia delle classificazioni di botanici e zoologi, nell’intento di distinguere gruppi umani come si faceva con le piante e gli animali, senza connotazione razzista. È a metà del XIX secolo, età d’oro del nazionalismo e dell’imperialismo, che compaiono le teorie fondate sulla gerarchizzazione delle razze umane. Arthur de Gobineau, con il suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane del 1855, ne è uno dei padri fondatori. La costruzione progressiva di un’ideologia razzista su base per così dire biologica che sostiene l’esistenza, all’interno della specie umana, di razze distinte, si inserisce in questo contesto storico particolare. Essere in grado di dimostrare scientificamente che gli Europei erano biologicamente superiori significava poter legittimare, tra l’altro, l’impresa coloniale. Le opere di Gobineau e dei suoi seguaci porteranno ai soprusi che tutti conosciamo. Sono state utilizzate in particolare per giustificare la Shoah, l’apartheid in Sudafrica o ancora la segregazione razziale negli Stati Uniti.
Quando il termine «razza» fa il suo ingresso nei testi giuridici nazionali e internazionali?
La nozione di «razza» fa il suo ingresso nel diritto internazionale con il movimento internazionale per i diritti dell’uomo seguito alla Seconda guerra mondiale. L’obiettivo è di mettere al bando le teorie razziste e di proporre una risposta diretta allo choc e all’indignazione suscitati nel mondo dalle abiezioni del regime nazista. Orrori che hanno avuto come effetto quello di screditare la concezione del razzismo biologico. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 ne rappresentano il fondamento. In questi due testi pionieristici figura il concetto secondo cui nessuno può essere discriminato a causa della propria «razza». Nello stesso periodo, la maggior parte delle costituzioni europee del dopoguerra si ispira a questi due testi riprendendo un catalogo di diritti fondamentali in cui compare il divieto delle discriminazioni fondate sulla «razza».
Quale ruolo ha svolto la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965?
Più di ogni altro testo, questo trattato multilaterale concluso nell’ambito dei diritti umani rappresenta il cuore della lotta internazionale contro la discriminazione razziale. Mentre le teorie razziali erano in linea con l’Europa imperialista del XIX secolo, la Convenzione si inserisce nel contesto storico della decolonizzazione. All’obiettivo primario di impedire il ripetersi delle atrocità causate dai regimi apertamente razzisti, si aggiunge il desiderio di prendere le distanze dal modello coloniale.
E in Svizzera?
La Costituzione federale del 1874, che fa seguito a quella del 1848, non è stata rivista sulla scia del dopoguerra. Quasi tutti i Cantoni, invece, hanno proceduto a una revisione totale delle loro costituzioni a partire dal 1960 e molti hanno inserito il divieto delle discriminazioni basate sulla «razza». Oggi, tra i Cantoni la cui costituzione contiene un catalogo di diritti fondamentali comprendente un divieto delle discriminazioni che elenca diversi criteri «vietati», la maggior parte utilizza la parola «razza» (ZH, BE, UR, NW, GL, BS, BL, AR, AG, TI e JU). Solo Neuchâtel (che parla di «origine, etnia e colore»), Vaud («origine, patrimonio genetico e aspetto fisico») e Ginevra («origine») vi hanno rinunciato. Alcuni Cantoni non hanno inserito nella loro nuova costituzione un proprio catalogo di diritti fondamentali e si sono accontentati di rimandare a quello della Costituzione federale (LU, SZ, SG e GR). Altri non annoverano il divieto di discriminazione (SO, OW e TG) oppure menzionano semplicemente il principio del divieto di discriminazione, senza elencare i motivi «vietati» (SH e FR). Infine, tre Cantoni non hanno (ancora) rivisto le loro costituzioni che risalgono alla fine del XVIII o all’inizio del XIX secolo (AI, ZG e VS). A livello federale occorre attendere la revisione del 1999 per trovare all’interno della Costituzione l’occorrenza del termine «razza». È tuttavia necessario precisare che la nozione di «razza» si inserisce nell’ordine giuridico svizzero alcuni anni prima che il principio di non discriminazione venga sancito nella Costituzione federale. Dal 1995 il Codice penale svizzero (CP) protegge espressamente alcuni gruppi di persone contro le discriminazioni nei rapporti tra privati. L’articolo 261bis CP punisce la discriminazione e l’incitamento all’odio fondati sull’appartenenza razziale, etnica e religiosa e, recentemente, sull’orientamento sessuale. In generale la nozione di «razza» è entrata nell’ordine giuridico svizzero con l’obiettivo di tradurre nel diritto nazionale le garanzie del diritto internazionale.
Eppure ricorrere a un termine scientificamente disapprovato, con l’obiettivo di proteggere persone strapazzate dalla storia può sembrare schizofrenico…
È vero che ricorrere a un termine largamente contestato, con lo scopo di proteggere persone e gruppi di persone da una realtà – quella del razzismo – ben presente può sembrare sconcertante. Una cosa però è certa: il termine «razza» contenuto nei testi giuridici nazionali e internazionali non può essere interpretato come legittimazione di una qualsiasi idea di gerarchia tra gruppi umani. Ciononostante è giusto che il mantenimento di questo termine negli ordini giuridici contemporanei sia oggetto oggi di un ampio dibattito.
L’uso del termine «razza» pone tuttavia meno problemi a seconda che ci si trovi su una sponda o sull’altra dell’Atlantico. Come lo spiega?
Il termine «razza» è oggetto di un recepimento e di un uso «privi di inibizioni» negli Stati Uniti e in Canada, mentre la nozione è ambigua o costituisce un tabù in Europa, in cui è usata con scrupolo e precauzione, virgolettata o completata con precisazioni semantiche. Nonostante le mie competenze di giurista, avrei difficoltà a spiegare le ragioni profonde di queste diverse percezioni, poiché in fondo sia la storia americana sia quella europea sono state segnate da ingiustizie e atrocità commesse in nome di una cosiddetta superiorità razziale. Segregazione, Olocausto, schiavitù, colonialismo, imperialismo e via dicendo: gli esempi non mancano al di qua e al di là dell’Atlantico. Sembrerebbe che il termine «razza» non rievochi gli stessi gruppi di popolazione in America del Nord. Secondo alcuni storici citati nel nostro studio, la parola «razza» non avrebbe operato la stessa transizione semantica in Europa e negli Stati Uniti: oltreoceano la parola avrebbe finito per designare una categoria di analisi sociale e culturale. Anziché far riferimento a una classificazione degli esseri umani in sottoinsiemi biologicamente distinti e gerarchicamente ordinati, la parola «razza» indica oggi gruppi che sono stati vittime di una discriminazione ufficiale e sistematica basata su un razzismo pseudoscientifico, ma i cui effetti restano percettibili. In Europa, la parola «razza» sembra invece mantenere un legame indistruttibile con la storia del razzismo. Questo stigma sarebbe stato impresso alla nozione di «razza» dal genocidio nazista. Nella volontà di dissociarsi da questo avvenimento colpevolizzante poiché vissuto sul suolo europeo, ogni elemento suscettibile di ricordare e far rivivere l’ideologia razzista è pertanto respinto. Per alcuni, questo atteggiamento sarebbe anche indicativo di una forma di rimozione, in particolare rispetto alle responsabilità dell’Europa nella storia del razzismo.
In Europa, il dibattito sull’uso e sul significato del termine «razza» vede confrontarsi due schieramenti: gli «eliminativisti» e i «costruttivisti». Può dirci qualcosa di più in merito?
Per gli «eliminativisti» è opportuno eliminare in tutto l’ordine giuridico la nozione di «razza» e sostituirla con espressioni o termini alternativi. È la soluzione scelta da alcuni Stati (Austria, Finlandia e Svezia in particolare), anche se non l’hanno ancora adottata in maniera sistematica e uniforme. Questa soluzione è giustificata dal fatto che la nozione di «razza» è priva di senso e di pertinenza scientifica. La conservazione del termine e il suo uso nei testi ufficiali sono quindi suscettibili di essere interpretati come legittimanti la persistenza di idee razziste.
I «costruttivisti», invece, preferiscono conservare la nozione di «razza» nell’ordine giuridico. Questa soluzione, scelta finora dalla Germania – ma il dibattito si è riacceso negli ultimi tempi su iniziativa dei Verdi e in seguito al movimento Black Lives Matter –, è giustificata dal fatto che la nozione è saldamente fissata nel diritto internazionale e soprattutto nei pertinenti trattati internazionali, in particolare in materia di divieto di discriminazione razziale. I «costruttivisti» ritengono che non sia opportuno generare, attraverso la sostituzione di questo concetto nel diritto nazionale, una discrepanza tra diritto interno e diritto internazionale. Questa soluzione «conservatrice» si giustifica con il fatto che l’uso del termine «razza» nell’ordine giuridico non legittima l’esistenza delle «razze». Senza rimettere in discussione l’idea che biologicamente il termine non è pertinente, tale soluzione equivale alla constatazione che la parola esiste storicamente in quanto costrutto culturale e sociale. Il suo uso tramanda, al contrario, l’idea – e la memoria – della lotta contro il razzismo e le teorie razziste.
Nei Paesi «eliminativisti», com’è stata sostituita la parola «razza»?
Le espressioni o i termini alternativi proposti sono numerosi e diversi: «appartenenza etnica» per l’Austria, «origine» per la Finlandia, «etnia, etnicità e altre circostanze particolari» in Svezia, o ancora «origine etnica», «origine etnica, sociale e territoriale» o «aspetto fisico» in altri casi. La diversità e l’eterogeneità di questi termini, nonché il fatto che alcuni non sono più chiari ed espliciti di «razza», mostrano che non è facile trovare alternative. Alcune definizioni più ampie ed elastiche permettono di estendere la protezione contro la discriminazione a nuove categorie, ma comportano anche il rischio di indebolire le categorie tradizionalmente più colpite dalla discriminazione razziale.
C’è una via di mezzo?
Sì, sono state proposte e talvolta messe in atto qua e là soluzioni che si collocano a metà tra l’approccio eliminativista e quello costruttivista. La prima di queste soluzioni, definita pragmatica, è quella adottata in Francia. Il termine «razza» è stato sostituito sistematicamente nel codice penale, ma non in tutto l’apparato giuridico nazionale, con l’espressione «presunta razza». Un’altra proposta di compromesso è quella avanzata dall’Istituto tedesco dei diritti umani: nei testi normativi occorrerebbe sostituire il termine «razza» con formulazioni che, senza cancellare le concezioni e teorie razziali o razziste, vi si riferiscono espressamente. Applicando questa proposta al diritto costituzionale svizzero, si sostituirebbe l’espressione «nessuno dev’essere discriminato a causa segnatamente della sua razza» con un’espressione del tipo «nessuno dev’essere discriminato in particolare per motivi di natura razzista». Se questa soluzione fosse adottata, bisognerebbe assicurarsi che la disposizione non si limiti al solo razzismo ideologico, vale a dire legato a un’intenzione razzista, ma che riguardi anche il razzismo strutturale.
Qual è la situazione in Svizzera? Quale approccio prevale sugli altri?
Soltanto alcuni autori sembrano essere favorevoli alla soppressione del termine «razza». La dottrina maggioritaria è piuttosto costruttivista per ragioni già menzionate: il comportamento reprensibile delle discriminazioni razziali deve essere designato in un modo o in un altro. Il fatto di utilizzare il termine «razza» nella legge non implica riprendere idee razziste, ma significa accettare il fatto che il razzismo e la discriminazione fondata su criteri razziali esistono, anche se sono privi di fondamento scientifico. Descrivo la situazione del momento, ma nulla è scolpito nella pietra.
Ritiene che questi tre approcci siano giuridicamente accettabili a livello svizzero?
Il nostro studio mostra che le tre vie sono percorribili e giuridicamente accettabili nel nostro Paese. Qualunque sia la scelta – conservatrice o innovatrice – ogni decisione dovrebbe essere accompagnata da uno sforzo particolare di comunicazione. Se le autorità svizzere decidessero di sopprimere il termine «razza» nella Costituzione federale e nel Codice penale e di sostituirlo con altri termini o di prediligere una soluzione di compromesso, questa misura dovrebbe essere accompagnata da un’ampia informazione sui seguenti punti: le ragioni di questa scelta, la volontà del legislatore di non ridurre il livello di protezione, la volontà di garantire la conformità al diritto internazionale e, infine, l’interpretazione da dare ai nuovi termini scelti. Se la Svizzera si impegnasse nella via conservatrice, non dovrebbe – nell’ambito del dibattito europeo attuale – lesinare gli sforzi per spiegare le ragioni dello statu quo, precisando che quest’ultimo non legittima affatto le idee e concezioni razziste.
Qual è il Suo parere personale sulla questione?
Sono più portato verso l’approccio costruttivista o verso la via del compromesso. Eliminando il termine «razza», si rischia di nascondere o far dimenticare una parte del nostro passato e di favorire la perdita della memoria storica di quello che ha causato e causa ancora il razzismo, che è sempre presente. Potrebbe inoltre significare una perdita di concretezza e ridurre il livello di protezione delle persone colpite: non dimentichiamo che, al di là del dibattito, vi è la realtà delle vittime della discriminazione. Questa realtà non sparirà, né oggi né domani. Mi permetta di fare un confronto. Sulla scia del movimento Black Lives Matter, si è posta la questione della conservazione di statue di personaggi storici che hanno avuto un ruolo nel commercio triangolare o nella diffusione di teorie razziste. A mio parere, rimuovere le statue è una «falsa buona idea», così come quella che prevede di eliminare il termine «razza» dai testi giuridici, anche se il dibattito sulla questione resta essenziale. È meglio conservare le statue imponendo di aggiungervi una targa esplicativa che chiarisca il contesto storico o immaginare soluzioni artistiche come ha fatto l’artista Banksy, che ha proposto di sostituire la statua dello schiavista Edward Colston, gettata in un canale di Bristol dai militanti, con una nuova scultura che rappresenta la stessa statua, ma in procinto di essere rimossa dai militanti.
Da dove deve venire lo stimolo per un eventuale cambiamento in Svizzera?
Dal mondo politico e non da quello giuridico. È per questo motivo che il mio parere ha poca importanza. Se è vero che è stato avviato, in particolare attraverso il nostro studio, in Svizzera il dibattito in sé resta però di debole intensità. Ho l’impressione che per il momento gli stimoli non siano abbastanza forti per determinare un cambiamento. È interessante notare che non c’è una spaccatura di parte chiaramente definita in questo dibattito. Il campo dell’approccio eliminativista conta per esempio rappresentanti di diversi schieramenti politici, che hanno aderito ciascuno per motivi propri. Coloro che chiedono di eliminare la parola «razza» sono talvolta gli stessi che non sono necessariamente favorevoli all’articolo 261bis CP, in quanto ritengono tra l’altro che quest’ultimo impedisca loro di esprimersi liberamente.
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