Sintesi dell'articolo
«Ausgebremst, angeschrien, schlecht behandelt. Rassismus gibt es auch im Radsport» (tedesco)
Il dibattito sul razzismo latente nel mondo del ciclismo è stato rimandato fin troppo a lungo. Eppure il tema resta un tabù e quasi nessuno vuole parlare dell’ostilità che serpeggia nel gruppo. Con qualche eccezione. Nell’aprile del 2017, il ciclista professionista vallesano Sébastian Reichenbach ha twittato la sua indignazione nel «sentire ancora degli imbecilli che utilizzano insulti razzisti nel gruppo». Reichenbach si riferiva a un episodio avvenuto durante il Giro di Romandia. L’italiano Gianni Moscon aveva insultato Kevin Reza, compagno di squadra dalla pelle scura di Reichenbach. In seguito alla vicenda Moscon era stato sospeso per sei settimane dalla sua squadra.
Finora, però, manca un dibattito pubblico. Ai giovani ciclisti africani viene addirittura sconsigliato di parlare pubblicamente di eventuali insulti, con la scusa che non serve a niente concentrarsi su qualcosa di negativo. Kenioti ed etiopi, che nell’atletica leggera dominano le corse di fondo, nel ciclismo occupano posizioni di rincalzo, sebbene i ciclisti dell’Africa orientale stiano lentamente guadagnando terreno. E così nel 2015, quando un eritreo indossò per alcuni giorni la maglia a pois di miglior scalatore nel suo primo Tour de France, un suo connazionale fu insultato con l’appellativo «fucking nigger» al Giro d’Austria. Lui e i suoi compagni di squadra sono stati inoltre più volte scherniti con il verso delle scimmie. Si sa che nel ciclismo i toni sono spesso ruvidi, ma si parla raramente di quanto sia dura per i nuovi arrivati. Chi non si è ancora fatto un nome deve sentirne tante, e chi è nero, forse, ancora di più.