Autore
Martine Brunschwig Graf è la presidente della Commissione federale contro il razzismo (CFR)
Questo numero di TANGRAM affronta un argomento tanto delicato quanto importante per capire alcuni aspetti del razzismo e della discriminazione razziale in Svizzera: l’eredità coloniale nel nostro Paese. Si tratta di un argomento difficile e complesso, poiché sebbene la Svizzera non abbia mai posseduto colonie, alcuni suoi cittadini, anche eminenti, hanno fatto fortuna accumulando ingenti ricchezze con attività economiche basate sul colonialismo e la schiavitù. Ma neppure la Svizzera, come Stato, è senza responsabilità: come mostrano numerosi articoli, la Confederazione ha anch’essa tratto vantaggio dal colonialismo.
La varietà degli approcci presentati in questo numero della rivista della CFR ci permette di analizzare il problema e le sue conseguenze sotto diversi punti di vista. Questo modo di procedere è essenziale, perché ci consente di far conoscere meglio alcune riflessioni e ricerche e anche di evidenziare le lacune che devono ancora essere colmate in campo scientifico, negli orientamenti pedagogici e, più in generale, nella comprensione che il pubblico può avere della nostra storia.
Invito pertanto ciascuna e ciascuno di voi a scoprire i contenuti proposti dagli autori di TANGRAM, che riflettono le ultime ricerche. Qui di seguito mi preme tuttavia evidenziare alcuni punti che riteniamo importanti.
Quando si parla della Svizzera e dei suoi cittadini e dei legami con il colonialismo e la schiavitù, un aspetto sovente menzionato è quello del contesto e dell’opinione dominante che regnava all’epoca dei fatti. Questa «opinione dominante» sembra essere stata un motivo politico predominante, nei dibattiti in seno al Governo e al Parlamento federale negli anni 1860, per non entrare nel merito degli interventi parlamentari che chiedevano l’introduzione di disposizioni penali contro il possesso e il commercio di schiavi da parte di cittadini svizzeri. La definizione di schiavitù come «crimine contro l’umanità», promossa dal consigliere nazionale sciaffusano Wilhelm Joos, non era condivisa dalla maggioranza dei politici dell’epoca.
È importante conoscere queste considerazioni per capire i fatti dell’epoca e il contesto in cui la Svizzera traeva profitto da operazioni economiche connesse alla schiavitù. Tanto più che oggi il nostro Paese è impegnato a livello internazionale nella lotta contro il traffico di esseri umani, una forma contemporanea di schiavitù.
La Convenzione concernente la schiavitù fu elaborata dalla Società delle Nazioni e firmata a Ginevra, in Svizzera, il 25 settembre 1926. Il Parlamento svizzero ne approverà la ratifica il 6 ottobre 1930. Nel 1963, il Consiglio federale chiese al Parlamento – che accettò – di ratificare l’Accordo addizionale delle Nazioni Unite concernente l’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù. Nel messaggio sulla ratifica il Consiglio federale scriveva quanto segue: «Le ragioni per le quali la Svizzera intendeva aderire nel 1930 non hanno perduto di valore. Esse non possono che persuaderla a proseguire sul cammino prefissosi più di 30 anni fa. Depositando uno strumento di adesione all’accordo addizionale del 1956 proveremo ancora una volta il desiderio d’accomunare in spirito di solidarietà il nostro sforzo a quello degli altri Stati che, lottando per una causa giusta, s’adoperano per far sparire dal mondo odierno le ultime tracce d’un anacronismo sociale.»
Ridurre la schiavitù a un «anacronismo sociale» 100 anni dopo la guerra di secessione americana e 33 anni dopo la ratifica della Convenzione concernente la schiavitù testimonia di una mentalità poco incline ad affrontare in modo chiaro e trasparente il problema della tratta e dello sfruttamento degli schiavi e il ruolo che i cittadini del nostro Paese avrebbero potuto svolgere in questo contesto.
Da allora, le cose sono rimaste immutate per lungo tempo. Ecco perché questo numero di TANGRAM è al tempo stesso importante e insufficiente. Le analisi e le ricerche sono infatti lungi dall’essere terminate e gli orientamenti pedagogici sono anch’essi appena abbozzati. Certo, in un’epoca in cui il wokismo è diventato il pretesto per opporsi a qualsiasi tentativo d’introspezione ci vuole ancora più coraggio per fare luce sul passato. Non si tratta di fare mea culpa, di puntare il dito contro qualcuno, di denunciare, di rimuovere statue o di negare il fatto che personaggi possano essere stati benefattori e visionari in alcuni ambiti, eruditi in altri e allo stesso tempo complici e protagonisti di modelli economici basati sullo sfruttamento di esseri umani.
Viviamo nel XXI secolo e non siamo i giustizieri degli errori commessi nei secoli precedenti. È nostro dovere, però, chiarire ciò che va chiarito e consentire un dibattito che si svolga serenamente. Il primo passo, affinché ciò possa avvenire, è imparare a conoscere e capire la storia. Il nostro auspicio è che questo numero di Tangram possa contribuirvi. Buona lettura!