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Ingrid Brodnig, autrice e rubricista austriaca, è esperta di fake news, mobbing e discorsi d’odio in un mondo vieppiù digitalizzato. Sempre più spesso, durante le sue conferenze e workshop le vengono chiesti consigli su come comportarsi di fronte a fake news e miti complottisti. Per il suo libro «Hass im Netz. Was wir gegen Hetze, Mobbing und Lügen tun können» è stata insignita del Premio speciale Bruno Kreisky. brodnig.ingrid@gmail.com
Cosa fare quando amiche e amici, parenti o conoscenti credono a miti complottisti e fake news? Come rimanere calmi se la discussione si fa accesa e quando vale effettivamente la pena dialogare? Alcuni consigli per discutere in modo strategico.
In molte situazioni, la scelta più facile sarebbe rinunciare a discutere: spesso è veramente stancante ed estenuante sperimentare quante falsità circolano. Durante la crisi del coronavirus, molti di noi hanno sentito affermazioni false da conoscenti oppure hanno ricevuto messaggi inoltrati sui social media con contenuti del genere. Ad alcuni è addirittura capitato di vedere persone a loro vicine diffondere simili congetture. Ad ogni modo, la disinformazione esercitava una forte attrazione già prima della pandemia: basti ricordare, ad esempio, tutte le bufale circolate sui rifugiati o il dibattito spesso molto acceso sulla crisi climatica, in cui circolavano anche falsità sul conto dell’attivista Greta Thunberg. Anche la disinformazione di matrice razzista e le narrazioni complottiste costituiscono da anni un problema enorme: spesso si cerca di attizzare l’invidia sociale, ad esempio diffondendo dati errati sulle prestazioni sociali percepite dai rifugiati, oppure viene evocata una grande minaccia, come nel caso della teoria cospirazionista della «grande sostituzione» propagata dall’estrema destra, secondo la quale vi è un piano segreto per sostituire la popolazione europea bianca con i musulmani. Pure in questo caso si ricorre a dati falsi e si evoca lo spettro di un pericolo imminente. Molte bufale funzionano perché forniscono una spiegazione semplicistica e, sovente, anche un capro espiatorio. Questioni scottanti come il coronavirus, i flussi migratori e la crisi climatica servono da terreno di coltura per dicerie, accuse false e persino teorie di evidente stampo complottista. Di fronte a questa situazione, ci si sente spesso impotenti e ci si chiede: posso realmente fare qualcosa? Ha veramente senso esporsi come singolo su questi temi?
La risposta è: sì, il contributo di ognuno di noi è molto importante. Siccome le notizie errate e anche le narrazioni complottiste hanno bisogno di essere credute e divulgate dal maggior numero possibile di persone, tutti noi possiamo cercare di ostacolare questa diffusione. Ognuno può sensibilizzare la propria cerchia sociale al riguardo, attirare l’attenzione sui fatti e mettere in guardia familiari e conoscenti dalle bufale in circolazione. Sostengo una forma strategica di discussione in cui si valuta attentamente in quali casi ha senso dialogare. Può capitare di avere particolarmente a cuore una questione (p. es. crisi climatica, migrazione, salute) e di voler continuamente sottolineare i fatti al riguardo, oppure di voler informare adeguatamente persone a noi vicine che credono a falsità evidenti. Vi sono molti buoni motivi per controbattere le fake news – e anche alcune linee guida che ci aiutano nella discussione.
Quando si discute con qualcuno che avanza tesi false o azzardate, la prima domanda da porsi è la seguente: in che misura la persona in questione è convinta del suo punto di vista? Non sempre, infatti, le persone credono ciecamente a una notizia falsa, ma piuttosto ne sono attratti perché la reputano interessante o corrisponde alle proprie aspettative. Una dottoressa di Berlino mi ha raccontato il caso di suo padre di circa 65 anni. «Quando è scoppiata la pandemia, ha iniziato a inoltrare continuamente fake news a me e a mio fratello, tra cui ad esempio quella che bere acqua aiuta a combattere il coronavirus. La ragione di questo comportamento è che teme per la propria salute e vorrebbe tutelare anche me e mio fratello. Ho dovuto trattenermi dallo scrivergli: "Oddio, ma veramente credi a queste sciocchezze?" Mio padre è in realtà una persona ragionevole, ma quando si parla di salute mi accorgo che è mosso dalla speranza che esista un rimedio efficace contro il coronavirus». Da mesi suo padre le inoltra articoli dai toni mirabolanti tramite e-mail o WhatsApp: «Cerco allora di chiarire perché si tratta di notizie insensate. Nel caso ricordato in precedenza, gli spiego ad esempio che bere acqua fa sì bene alla salute, ma non influenza il modo in cui un virus si diffonde nel corpo. I suoi timori per la propria salute non svaniscono così d’incanto, ma comunque si fida di me perché sa che voglio il suo bene».
In circostanze del genere, i familiari assumono la funzione di pompieri che devono continuamente entrare in azione per spegnere questi «focolai» di disinformazione. Si tratta di un esercizio che può risultare faticoso, ma che è comunque importante fare, perché altrimenti vi è il rischio che una persona sia esposta a numerose fake news senza accorgersene e segua ad esempio consigli per la salute problematici. Anche la dottoressa di cui sopra cerca sempre di parlare con suo padre di questi temi. «Ho detto a mio padre che sono contenta di ricevere da lui queste notizie, perché voglio avere la possibilità di confutarle. Penso che in molti casi la disinformazione possa essere combattuta in famiglia. Vogliamo bene a queste persone: chi può farlo se non noi?».
Discutere equivale a un esercizio di equilibrismo. Da un lato si tratta di dimostrare empatia, ma dall’altro anche di porre dei limiti da non superare e di far capire alle persone che le asserzioni da loro diffuse hanno ad esempio una matrice razzista o antisemita. È importante decostruire gli aspetti problematici di affermazioni errate o speculative, in quanto non tutti sono consapevoli del sostrato razzista o antisemita di molte fake news e di molti miti complottisti. Sovente una tale contestualizzazione aiuta anche altre persone che seguono la discussione a capire la problematicità di un’argomentazione. La difficoltà consiste quindi nel non minimizzare da un lato i miti razzisti o antisemiti e, nel contempo, di mostrare rispetto per il proprio interlocutore quando si cerca di convincerlo con la dialettica.
Anja Sanchez Mengeler, in passato seguace di teorie cospirazioniste, mi ha raccontato che il distacco dalla scena complottista è stato un processo graduale cui ha contribuito anche la sua famiglia, e in particolare suo marito e sua sorella. Quest’ultima la invitava a interrogarsi sulle proprie certezze ponendo domande come: «Credi veramente che la stampa sia manipolata a tal punto?», e nel contempo era attenta a non interrompere i contatti. «Durante la giornata parlavamo anche di molte altre cose, lei ha continuato a coltivare il nostro rapporto, come a volermi dimostrare: "io non ti abbandono, tu per me sei importante"».
Quando si vuole instaurare un dialogo con qualcuno che crede ai miti complottisti, è importante mantenere un atteggiamento ponderato. In molti casi, tuttavia, non è un’impresa facile, dato che sovente queste persone nutrono idee assai discutibili, mettono in dubbio evidenze scientifiche e accusano gli altri di agire in malafede, arrivando persino a diffondere narrazioni complottiste di matrice antisemita o ad avanzare accuse antidemocratiche. Per i familiari, è difficile affrontare apertamente e decostruire affermazioni problematiche (p. es. antisemite) manifestando nel contempo stima ed empatia. Quando una persona cara è incline a una mentalità complottista, è opportuno rivolgersi tempestivamente a uno specialista. Esistono consultori gratuiti che possono essere contattati anonimamente, come l’associazione tedesca Zebra che opera nel Baden-Württemberg. La sua responsabile Sarah Pohl mi ha riferito quanto segue: «Spesso ci chiedono se è opportuno interrompere i contatti. Quando si tiene a una persona, perlopiù consigliamo di non farlo, perché in caso di distacco aumenta il rischio che essa intrattenga scambi soltanto con coloro che condividono questi modi di pensare e non abbia più nessuno che possa fungere da contraltare». Prima di interrompere completamente i contatti, secondo Sarah Pohl si può valutare se ridurli o adottare una diversa strategia di discussione, ad esempio parlando della problematica, ma soprattutto dei sentimenti del proprio interlocutore: «Perché questo tema è importante per te? Perché ti coinvolge così intensamente? Si tratta insomma di non concentrarsi esclusivamente sulla dimensione fattuale e di cercare di capire perché la persona in questione è sensibile al richiamo di simili teorie».
Quando si discute, occorre innanzitutto chiedersi a chi ci si rivolge. A volte può anche trattarsi non del proprio interlocutore, ma degli altri presenti. Se a una festa di famiglia uno zio incorreggibile avanza congetture strampalate sul 5G e sul coronavirus, può essere utile confutare queste tesi – non per far cambiare opinione allo zio, ma per far capire al resto della famiglia perché le sue tesi sono assurde. Ribattere pubblicamente è importante soprattutto sui social media. A questo punto si pone naturalmente la domanda: intervenire su Facebook o su WhatsApp è veramente utile?
Le studiose di scienze della comunicazione Emily K. Vraga e Leticia Bode hanno condotto esperimenti al riguardo, esaminando ad esempio se controbattere su Facebook risulti efficace. Nel contesto delle narrazioni complottiste attorno al virus Zika (ampiamente diffuso in Brasile qualche anno fa), hanno osservato le reazioni a un’affermazione falsa diffusa su Facebook confutata da due utenti della piattaforma. La replica è risultata efficace quando le persone indicavano una fonte a sostegno delle proprie affermazioni e quando questa portava a una verifica dei fatti («fact checking»). Dai risultati emerge che una smentita sui social media può risultare utile anche se effettuata da sconosciuti. Nell’esperimento erano però due le persone che ribattevano alle tesi complottiste. Si può dunque concludere quanto segue: è utile rinviare a una verifica dei fatti, a maggior ragione se le persone vedono che anche qualcun altro lo ha già fatto. Non abbiate timori a postare a vostra volta un’ulteriore rettifica. Anche i fatti vanno ribaditi! Le due studiose sopraccitate utilizzano il motto «see something, say something». In altre parole, reputano utile commentare notizie false sui media sociali.
Queste considerazioni mi trovano d’accordo, ma con la seguente precisazione. Prima di replicare sui social media, chiedetevi quanto tempo siete disposti a investire e su quali piattaforme ciò può risultare utile. Capita ad esempio che persone armate di buone intenzioni intervengano sulle pagine Facebook di gruppi complottisti per controbattere alle loro tesi. In questi casi, il rischio è di sprecare tempo e nervi senza concludere granché, poiché spesso tali gruppi sono composti quasi esclusivamente da persone con convinzioni molto salde. Soprattutto in presenza di gruppi molto omogenei, è probabile che le contro-argomentazioni vengano spazzate via da un’ondata di pareri contrari. Per questo motivo, raccomanderei in generale di discutere all’interno di contesti popolati da un pubblico eterogeneo, in cui si incontrano anche persone che la pensano diversamente ma non solo, come ad esempio le pagine Internet di affermate testate giornalistiche.
Vi sono molti modi per dare un contributo positivo, anche a seconda del tempo che si è disposti a investire. Se decidete di dedicare mezz’ora a settimana a un tema o a una persona che vi sta a cuore, potete impiegare questo tempo per chiamare vostra zia incline a credere alle fake news o per postare su Facebook rettifiche a pagine con contenuti inattendibili, come fanno i siti mimikama.at o correctiv.org, in modo da mettere in guardia altre persone dalle narrazioni complottiste.
Discutere è meno faticoso se ci si pone obiettivi strategici, se si riflette a fondo per chi si discute e se si presta attenzione al proprio tempo. È sicuramente utile controbattere le informazioni false, ma senza trascurare ciò che più ci interessa. Una strategia per contrastare fake news e teorie complottiste può pertanto anche essere di non concentrarsi soltanto sulle falsità, ma di dare risalto alle informazioni corrette, di raccomandare pubblicazioni di qualità alle persone che ci circondano, di condividere podcast scientifici e di segnalare voci particolarmente attendibili. Tra queste figura ad esempio la youtuber e chimica Mai Thi Nguyen-Kim, che nel dibattito sul coronavirus si è più volte distinta per i suoi ponderati video di contestualizzazione, o il giornalista scientifico Lars Fischer, che pubblica su spektrum.de. Altrettanto utile è non limitarsi a confutare i miti razzisti, ma dare voce alle persone con un retroterra migratorio: molti influencer che hanno un passato migratorio raccontano ad esempio le loro esperienze con il razzismo e gli stereotipi razzisti su Instagram o TikTok.
Quando mi sento frustrata per la mancanza di obiettività della discussione su un argomento o per la vasta eco ottenuta da contenuti provocatori, mi chiedo: a chi, in alternativa, potrei rivolgere la mia attenzione e chi potrei segnalare come fonte ad altri? Secondo me, una delle strategie più efficaci è dare il maggiore spazio possibile alle voci serie.
Non c’è un rimedio miracoloso contro la disinformazione e le affermazioni fuorvianti. Vi sono però alcuni trucchi per smascherarle più rapidamente e per contrastarle più efficacemente sul piano dialettico. Un consiglio molto semplice è di prestare maggiore attenzione e sostenere coloro che non ci promettono soluzioni mirabolanti e certezze, ma al contrario sono disposti a riconoscere la complessità del mondo – con tutti i suoi aspetti piacevoli e meno piacevoli.
Questo articolo costituisce un adattamento tratto dal volume «Einspruch! Verschwörungsmythen und Fake News kontern – in der Familie, im Freundeskreis und online».
Bibliografia:
Brodnig, Ingrid: Einspruch! Verschwörungsmythen und Fake News kontern – in der Familie, im Freundeskreis und online. Brandstätter Verlag. Wien 2021.
Brodnig, Ingrid: Übermacht im Netz: Warum wir für ein gerechtes Internet kämpfen müssen, Brandstätter Verlag. Wien 2019.
Brodnig, Ingrid: Lügen im Netz. Wie Fake News, Populisten und unkontrollierte Technik uns manipulieren. Brandstätter Verlag. Wien 2017.
Brodnig, Ingrid: Hass im Netz. Was wir gegen Hetze, Mobbing und Lügen tun können. Brandstätter Verlag. Wien 2016.