Autore
Noémi Michel è assistente principale di teoria politica al dipartimento di scienze politiche dell’Università di Ginevra e membro della European Race and Imagery Foundation (ERIF). noemi.michel@unige.ch
Com’è che la razza, nonostante sia diventata un tema indesiderato e quasi innominabile, continua a tutt’oggi a produrre significati e gerarchizzazioni tra esseri umani? Come funziona ciò che la teoria critica della razza chiama la «racelessness»?
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati nazionali europei si sono dotati di un arsenale giuridico e di politiche di lotta contro il razzismo. Eppure, il razzismo persiste in tutte le sue forme. Secondo diversi studi recenti della teoria critica della razza, questa persistenza si spiega in parte con il tabù della razza, il desiderio collettivo condiviso in Europa di lasciarsi «alle spalle» la storia della razza. Questo desiderio si rinnova costantemente nelle sfere istituzionali, nel dibattito pubblico e nei rapporti interpersonali arrivando a formare un quadro che norma i nostri modi di evocare la razza che la letteratura chiama racelessness.
Difficilmente traducibile, il termine racelessness rinvia a un’ambivalenza, a una presenza-assenza della razza. La teoria critica della razza utilizza questo termine per illustrare il quadro di riferimento dominante nei contesti dell’Europa occidentale, che norma il modo in cui la razza può essere evocata sui piani verbale/testuale, visivo ed affettivo. In altre parole, che detta ciò che gli individui, i gruppi e le istituzioni possono permettersi o al contrario vietarsi quando si tratta di notificare, dire, scrivere, mostrare e sentire la razza. Visto che rende difficile lottare in modo efficace contro il razzismo, la racelessness contribuisce a produrre un razzismo «senza razza».
Basandomi sui principali studi dedicati alla racelessness e al razzismo «senza razza» in Europa e in Svizzera (1), esamino innanzitutto ciò che la racelessness vieta/permette di dire per poi discutere di ciò che vieta/permette di mostrare e sentire. L’obiettivo è dimostrare che è l’interazione tra ciò che non si dice, ma si vede e si sente a far persistere il razzismo «senza razza».
Ovunque nell’Europa continentale, il desiderio di far scomparire la razza si manifesta in un tabù verbale molto forte, un sentimento condiviso di non ricorrere a un vocabolario razziale. Questo tabù riguarda gli insulti razzisti e i discorsi e i simboli di odio razziale che la legge reprime da alcuni decenni (Grigolo, Hermanin e Möschel, 2011; Naguib, 2016). Il suo perimetro, tuttavia, non si limita al solo discorso violento: vieta anche il ricorso a un vocabolario esplicitamente razziale che alcuni attori o istituzioni vorrebbero utilizzare a fini descrittivi o di resistenza al razzismo. La racelessness fa apparire imbarazzante il fatto di caratterizzare sé stessi o altri come «neri» o «bianchi». Questo tabù può addirittura penalizzare chi si avvale del vocabolario razziale per lottare contro il razzismo.
Rendendo moralmente inopportuno il ricorso verbale e scritto alle categorie razziali, la racelessness spinge gli individui e le istituzioni a privilegiare un vocabolario vago o codificato per evocare realtà influenzate da rapporti di potere razzializzati. Così, si preferisce parlare di «persone straniere», di «persone con retroterra migratorio» o di «diversità» piuttosto che utilizzare espressioni più esplicite come «persone di colore», «persone razzializzate» o ancora «minoranza nera». Questo tabù ha anche l’effetto di rendere meno esplicita e diretta l’espressione verbale del razzismo. Oggi, la differenziazione e la gerarchizzazione degli esseri umani in funzione di caratteristiche cosiddette endogene avviene attraverso formule metonimiche come «differenza culturale» o «diverso modo di vita», che associano idee per indicare la differenza razziale senza ricorrere a categorizzazioni esplicitamente biologizzanti (2).
Il desiderio di eliminare la razza dalla sfera del dicibile si manifesta anche attraverso numerosi meccanismi di minimizzazione e relativizzazione. Tra questi, uno dei più utilizzati è quello che io chiamo l’esternalizzazione spazio-temporale e che consiste nel localizzare la razza e il razzismo in altri spazi. In Svizzera, per esempio, capita spesso di sentire affermazioni come «il razzismo riguarda gli Stati Uniti e le periferie francesi». Parallelamente, la razza e il razzismo vengono non di rado relegati nel passato. Nel 2011, quando il celebre profumiere Jean-Paul Guerlain se ne uscì con una frase sulla pigrizia dei «n*», molti condannarono le sue parole associandole a un discorso «d’altri tempi» (Michel, 2013).
Un’altra variante dei meccanismi di relativizzazione della razza è la privatizzazione: quando si verifica un episodio razzista, viene sì riconosciuto come tale, ma anche immediatamente attribuito soltanto all’azione dell’individuo o del gruppo di individui – bollati come «ignoranti» o «stupidi» – che l’hanno commesso. La privatizzazione riguarda anche la ricezione delle esperienze di razzismo: quando una persona dichiara di essere vittima di razzismo, subito l’origine della sua sofferenza viene associata alla sua percezione soggettiva (e quindi di natura privata) attraverso formule come «sei troppo sensibile», «non essere paranoico» o «al mio amico nero questa cosa non crea alcun problema». L’incessante ripetizione di questi meccanismi di relativizzazione fa sì che la razza e il razzismo vengano localizzati al di fuori della vita sociale e democratica «normale» e «civilizzata» e siano considerati un’eccezione dovuta all’irruzione di elementi a loro volta eccezionali come i neonazisti o i folli. In una prospettiva intersezionale, è opportuno osservare che la logica secondo cui soltanto i meno istruiti o gli emarginati sono razzisti si basa su stereotipi di classe (3).
Il desiderio di far scomparire la razza reprime i riferimenti espliciti alla razza sul piano del dicibile, ma non su quello del mostrabile. I codici visivi razzializzati, ossia quelli che associano la non-bianchezza alla non-europeità, continuano a essere prodotti e a circolare in tutto il continente (El-Tayeb, 2011, pag. xxiv). Gli spazi pubblici sono saturi di immagini che re-introducono un confine razziale tra i corpi con caratteristiche che rinvierebbero a un’«europeità» naturale o «nativa» e quelli degli «altri», letti come diversi a causa di un insieme di caratteristiche relative al colore della pelle, alla fisionomia e alla muscolatura, ma anche a presunti comportamenti e stili di vita (Hall, 1995). Le campagne pubblicitarie per la raccolta fondi di organizzazioni umanitarie che mostrano bambini neri poveri in un paesaggio arido riproducono un confine e una gerarchia tra lo spazio europeo e gli «altri» spazi. Lo stesso vale per i libri per bambini che riproducono immagini stereotipate degli «africani» e degli «europei» (Chetty, 2014; Purtschert, 2012). Quando persone bianche praticano il blackface, in altre parole quando si dipingono il volto di nero e indossano parrucche afro per partecipare a una festa, si appropriano di caratteristiche fisiche razzializzate per trasgredire alla loro bianchezza. Una tale trasgressione è leggibile e comprensibile anche dai bambini, che sono socializzati sin dalla nascita per capire quali caratteristiche indicano differenziazione e gerarchizzazione razziale. Da quando è stata inventata, la razza informa il nostro «occhio» che, dal canto suo, raggruppa, classifica e gerarchizza «tipi» di esseri umani (Fanon, 1952; Hall, 2013).
Lo spettacolo della razza circola negli spazi pubblici e domestici, e costituisce una dimensione fondamentale della nostra cultura pubblica. La razza si (ri)mostra attraverso i film, i libri, le riviste, la musica, le fantasie, i social o ancora i beni di consumo e la pubblicità, segnando alcune persone con il marchio della differenza razziale. Per queste ultime, questa invasione visiva ha pesanti ripercussioni. I loro corpi vengono letti secondo schemi di interpretazione preconcetti ed estremamente fissi, che li associano a oggetti senza voce da consumare, a immagini esotiche sessualizzate da contemplare o ancora a minacce da contenere. Così, l’incessante circolazione dello spettacolo della razza produce profili predeterminati con i quali le persone marcate dalla differenza razziale vengono abbordate e si vedono precludere la possibilità di co-costruire i vari scenari sociali e interpersonali nei quali si ritrovano. Per citare due esempi ben documentati tra i tanti: un uomo nero che gironzola in un paesaggio urbano non può che essere uno spacciatore, mentre una donna nera che partecipa a una festa con i suoi capelli afro sciolti non può che essere «disposta» a farseli toccare.
Quando si mostra, la razza si fa sentire e capire. Tuttavia, gli autori di rappresentazioni che partecipano allo spettacolo invasivo della razza non riconoscono esplicitamente la dimensione razzializzata dei loro oggetti o delle loro performance visive. Accusati di razzismo, accompagnano le immagini da loro prodotte con discorsi di disconoscimento o di innocenza come «questo cartellone non ha nulla a che vedere con la razza» nel caso di pubblicità razziste, o «è un’usanza festosa, non intendo essere razzista», «sto scherzando, smettetela di vedere il razzismo ovunque» nel caso dei rituali blackface, o ancora «io non vedo i colori, c’è solo una razza umana» nel caso di accuse di discriminazione razziale.
La racelessness si basa quindi su uno snodo paradossale tra il dicibile e il mostrabile: la razza si mostra e si capisce bene sul piano visivo, ma questa intelligibilità è prontamente sconfessata sul piano del discorso tramite formule che asseriscono di non aver mai visto o di non aver mai mostrato la razza. Insomma, la racelessness funziona attraverso una complessa combinazione di codici visivi e verbali che tabuizza la dicibilità della razza facendola però persistere sia nel suo significato sia nei suoi effetti razzisti.
Benché caratterizzi l’intero continente europeo, la racelessness varia secondo i contesti. Negli ex imperi coloniali come la Francia, il Belgio o i Paesi Bassi, la negazione totale della razza non è possibile. Questi contesti generano un maggior numero di meccanismi di affermazioni spazio-temporali del tipo «la razza c’era prima, ma l’abbiamo superata» o «la razza c’era soprattutto nei nostri territori coloniali, qui c’è sempre stata la democrazia». Dato che non ha mai formalmente posseduto colonie, la Svizzera è caratterizzata da un’amnesia coloniale molto forte. Si considera infatti un’entità eccezionale che, attraverso una neutralità attiva, ha saputo proteggersi dalle politiche razziste e fasciste del resto delle nazioni europee (Purtschert, Lüthi e Falk, 2012, pag. 52). Così, la racelessness alla svizzera rimanda non tanto al desiderio di far scomparire la razza quanto alla convinzione che non ci sia mai stata.
Poiché nella concezione dominante della racelessness la «razza» non ha o non ha più una storia, le esperienze e i racconti delle vittime dirette del razzismo diventano difficili da sentire, comprendere o percepire. In un regime di racelessness, cercare di discutere gli effetti violenti del razzismo equivale a voler rompere un tabù, a interrompere il desiderio collettivo egemonico coltivato sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. La racelessness produce una gerarchizzazione delle parole. Negli spazi pubblici un uomo bianco della classe medio-alta che parla di razzismo con un vocabolario distaccato ed evasivo è più udibile e credibile di una donna nera della classe popolare che usa un vocabolario esplicito per parlare delle sue esperienze e il cui corpo tende ad essere letto come oggetto – e non soggetto – di conoscenze collettive.
La racelessness (ri)produce anche un’asimmetria affettiva. Il razzismo provoca emozioni come rabbia, paura, tristezza e ansia. Ma l’espressione di queste emozioni da parte delle persone direttamente colpite dal razzismo diventa illegittima perché fa riferimento a una tematica, quella della razza, di cui non bisogna parlare. Al contrario, la racelessness legittima i bianchi a esprimere irritazione, fastidio o nervosismo di fronte alle emozioni dei non-bianchi che turbano il desiderio di tenere lontana la questione razziale.
Per combattere il razzismo bisogna poterlo (ri)conoscere. La racelessness contribuisce alla persistenza del razzismo perché ne reprime la vera conoscenza e il vero riconoscimento. Dall’istituzionalizzazione del razzismo durante la schiavitù e il colonialismo, le persone inquadrate nell’inferiorità razziale hanno sviluppato registri alternativi di evocazione della razza per resistere ai suoi effetti violenti e formulare principi di liberazione e di giustizia sociale. Nel momento in cui scrivo questo testo, nell’estate del 2020, uno di questi registri alternativi si fa sentire, vedere e avvertire nella maggior parte delle città europee attraverso le mobilitazioni per le vite dei neri. Quando riaffermano verbalmente nei loro slogan e testualmente sui loro striscioni che le vite dei neri contano, i manifestanti rendono udibile un vocabolario razziale esplicito. Quando mettono in scena nello spazio pubblico i loro corpi neri per esprimere le loro richieste politiche antirazziste, producono un contro-spettacolo e un contro-scenario della razza nel quale i neri sono autori delle proprie rappresentazioni visive e narrative. Quando inginocchiati a terra propongono 8 minuti e 46 secondi di silenzio, producono e legittimano uno spazio collettivo e pubblico per le loro emozioni di lutto e di rabbia (4).
Tanto il movimento Black Lives Matter che la teoria critica della razza ci insegnano che le società europee, anziché reprimere la questione della razza, dovrebbero agevolare l’emergere di spazi di conoscenza e riconoscimento di questo fenomeno incentrati sulle persone che vivono il razzismo quotidianamente. L’antirazzismo non può essere attuato senza combattere la racelessness, ossia la costante riproduzione dello spettacolo prontamente sconfessato dell’alterizzazione e dell’inferiorizzazione razziale. Questa lotta si svolge sia sul terreno di ciò che può essere detto sia su quello di ciò che può essere mostrato e sentito. Ed è attingendo alla lunga storia intellettuale, politica e artistica dei gruppi razzialmente minorizzati che si trovano gli esempi più creativi ed efficaci di antirazzismo «con razza», ovvero forme di evocazione critica della razza che invece di rinnegarne la realtà storica e sociopolitica cercano di interromperne gli effetti violenti.
Riferimenti bibliografici su richiesta
(1) Questo testo liberamente tradotto dal tedesco riprende, modificandola, la sezione dedicata alla racelessness in Michel (2019) e si basa principalmente su Goldberg (2009), El-Tayeb (2011), Michel (2015), Purtschert, Lüthi e Falk (2012), Lavanchy (2015) e Boulila (2018).
(2) Riguardo all’emergere di quello che i teorici della razza e del razzismo designano con i termini di «neorazzismo» o di «razzismo culturale», cfr. Balibar (2007 [1988]), Solomos e Back (1996), Michel e Honegger (2010).
(3) L’approccio intersezionale tiene conto degli effetti interattivi dei diversi assi di potere come la razza, il genere, la sessualità, la classe e il validismo.
(4) 8 minuti e 46 secondi è il tempo durante il quale, il 26 maggio 2020, a Minneapolis, un poliziotto bianco ha tenuto brutalmente premuto il ginocchio sul collo di George Floyd provocandone la morte per asfissia. In seguito a questo episodio le manifestazioni per le vite dei neri si sono intensificate in tutto il mondo.