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Intervista a cura di Samuel Jordan
Ovunque, nel mondo, la libertà di espressione è messa a dura prova. Questo diritto fondamentale di esprimere la propria opinione con tutti i mezzi è regolarmente attaccato o strumentalizzato. Considerato uno dei fondamenti della democrazia, tale principio affermatosi durante l’Illuminismo è oggi troppo spesso preso a pretesto per giustificare discorsi d’odio rivolti contro gruppi minoritari. È questa la tesi sostenuta da Denis Ramond, dottore in scienze politiche e docente all’Università di Angers, in Francia, nella sua recente pubblicazione «La bave du crapaud. Petit traité de liberté d’expression». Abbiamo raccolto le sue opinioni al riguardo in un’intervista.
Denis Ramond, cominciamo dalle basi: come definire la libertà di espressione?
La nozione di libertà di espressione è complessa. Secondo i giuristi, consiste nel diritto di dire e di mostrare. Per i filosofi e i dissidenti serve a esprimere ciò che altri ci impediscono di dire politicamente e moralmente e incarna una forma di disobbedienza civile. La libertà di espressione non è solamente sancita dalla legge, ma comprende un insieme di pratiche che, spesso, anticipano il diritto vigente, lo stravolgono e lo fanno evolvere. Si tratta della sola libertà a cui si chiede di essere eccessiva. Agisce da sobillatrice, rimettendo in discussione, tramite discorsi, scritti o immagini, il diritto della maggioranza, dei potenti e dei governanti. Ha la facoltà di instillare il dubbio in chiunque e il problema sta tutto nel definire i limiti accettabili di questa sovversione.
Perché interessarsi oggi alla libertà di espressione?
Malgrado la sua importanza per le nostre democrazie e la crescente attenzione per questo tema nel dibattito pubblico, la libertà di espressione costituisce un ambito di ricerca ancora relativamente poco esplorato dal mondo accademico europeo. Sulla questione sono stati scritti vari saggi a carattere giuridico, mentre non c’è quasi nulla al riguardo nel campo della riflessione filosofica. Con la mia opera ho voluto colmare una lacuna e aprire un dibattito.
Per quale motivo questo dibattito è oggi necessario?
Il libro prende spunto da una constatazione che solleva interrogativi e mi preoccupa: da alcuni decenni, la libertà di espressione sul piano politico costituisce un valore vieppiù rivendicato dalla destra e dall’estrema destra. Conquistata con grande fatica in passato, questa libertà, che pone limiti al potere dello Stato e della morale dominante al fine di garantire il pluralismo e i diritti individuali, è ormai sistematicamente brandita dalle forze conservatrici e reazionarie contro la richiesta delle minoranze di ottenere l’uguaglianza e di essere pubblicamente riconosciute.
A quali minoranze si riferisce?
Penso alle minoranze etniche, sessuali, religiose e sociali. In sostanza, la libertà di espressione è utilizzata per colpire tutto ciò che oggi viene comunemente definito il «politicamente corretto».
Prendendo di mira il politicamente corretto, qual è l’obiettivo di coloro che Lei definisce i «nuovi difensori della libertà di espressione»?
Per la destra, la denuncia del politicamente corretto si è trasformata in uno stratagemma elettorale. Si tenta di tracciare una linea di demarcazione tra «noi» (i civilizzati) e «gli altri» (gli oscurantisti). È diventato di moda denunciare «la tirannia delle minoranze» e prendersela con i benpensanti progressisti ed egualitari e con le associazioni antirazziste e femministe, accusati di aver calato una cappa di piombo sulla libertà di parola. Si tratta di un espediente per poter finalmente esternare ciò che si ha sullo stomaco, in nome di una supposta trasgressione. Viene così capovolto il ruolo storico della libertà di espressione, ormai strumentalizzata dai potenti contro i deboli, fatti passare per potenti.
In ultima analisi, cosa intende dimostrare con il Suo libro?
Sono dell’idea che si possa difendere la libertà di espressione senza appartenere a questa tendenza politica antiegualitaria. A tale proposito avanzo diverse proposte per correggere il tiro: 1. È possibile concepire limiti chiari e coerenti alla libertà di espressione; 2. Difendere la libertà di espressione in nome delle sue conseguenze positive è inutile se non controproducente; 3. È giustificato punire gli attacchi alle persone, in particolare quelli che riguardano le loro appartenenze, ma è ingiustificato punire gli attacchi alle preferenze.
Ci può spiegare questa distinzione tra appartenenze e preferenze?
Per preferenze intendo le convinzioni politiche e religiose, i gusti o la morale. L’origine o il genere costituiscono invece delle appartenenze. La libertà di espressione consente di prendere di mira le preferenze, che sono modulabili, ma non le appartenenze, che sono date e non intercambiabili. Si può dunque dibattere sulle preferenze, ma non sulle appartenenze. Nel momento in cui si attaccano persone per via della loro appartenenza, le si riduce a un’identità. In una società che non distingue tra queste due nozioni non ci può essere libertà di espressione.
Se ho ben capito, discorsi islamofobi o blasfemi sarebbero allora tollerabili?
Non è proprio quello che volevo dire. Le questioni religiose sono particolarmente complesse dato che, per alcuni, si collocano al confine tra appartenenze e preferenze. Si appartiene a una comunità di fedeli e al tempo stesso si hanno preferenze religiose. Dal momento in cui si considera la religione come un’appartenenza che ingloba la collettività, risulta difficile accettare la blasfemia. D’altro canto, alcuni prendono di mira la comunità musulmana nel suo insieme, indipendentemente dal fatto che i suoi rappresentanti siano praticanti o meno.
Nel giugno del 2019, il New York Times ha bandito le vignette satiriche dalle sue colonne. Il quotidiano statunitense ha preso questa decisione in seguito alle proteste suscitate dalla pubblicazione di una vignetta giudicata da alcuni antisemita. Che cosa ne pensa?
Si tratta di uno strappo alla libertà di espressione, tanto più che i disegni satirici ne costituiscono uno degli strumenti più efficaci. Per quanto concerne la vignetta in questione – che, lo ricordiamo, ritrae un Donald Trump cieco che tiene al guinzaglio il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu raffigurato come un cane – è pensabile che ammiccasse a certi stereotipi. Tuttavia ritengo che non vi sia nulla di inaccettabile. La caricatura non avrebbe suscitato tanto clamore se non avesse riguardato lo Stato d’Israele. Questo caso mostra più in generale lo status ambiguo della libertà di espressione negli Stati Uniti: da un lato tale diritto è rigorosamente difeso sul piano costituzionale, dall’altro i giornali sono costretti a porsi un limite per paura di perdere lettori o di processi costosi e denunce che potrebbero offuscare la loro immagine. In sostanza, il liberismo economico e la libertà di espressione non vanno sempre d’accordo.
Un politico di alto rango e un semplice cittadino pronunciano la stessa frase: «I neri sono più pigri dei bianchi». Qual è la differenza?
Dal punto di vista del diritto non cambia nulla: entrambi i casi saranno trattati allo stesso modo. Vi è invece una differenza sostanziale sul piano simbolico, dato che la libertà di espressione è strettamente legata ai rapporti di potere. Le conseguenze sono infatti molto diverse a seconda del mittente. Per valutarle, occorre prendere in considerazione tre elementi: 1. Chi è il mittente e qual è il suo grado di potere? 2. Chi è il destinatario? È influenzabile? 3. Qual è il bersaglio? È vulnerabile? Se proclamo per strada che tutti i musulmani sono terroristi, ciò non avrà lo stesso effetto che, se a farlo, fosse un ministro che lo dice davanti a una folla plaudente.
Quindi, quando vietare e quando punire?
Occorre adottare misure caso per caso. Il criterio delle appartenenze e delle preferenze può costituire una buona base di partenza. Per fare un esempio, ritengo sia legittimo vietare l’apologia della violenza o i discorsi d’odio contro persone o gruppi di persone (razzismo, omofobia, misoginia ecc.). Al contrario considero illegittimo vietare il negazionismo, in quanto quest’ultimo non implica un attacco esplicito a persone in ragione della loro appartenenza.
Diversi Stati europei hanno legiferato contro i discorsi d’odio nella Rete. Reputa che sia una buona soluzione?
L’idea di fondo è lodevole se si considera quanto Internet sia divenuto una valvola di sfogo contro le minoranze. Tuttavia mi preoccupano le leggi che consentono alle imprese del mondo digitale di sorvegliare in prima persona i contenuti delle loro piattaforme on-line e che offrono un potere discrezionale enorme a questi attori privati, i quali preferiscono sicuramente censurare e limitare le libertà pubbliche piuttosto che mettere in pericolo la loro immagine e la loro redditività economica.
Di fronte a quello che Lei definisce un abuso della libertà di espressione da parte di taluni, la lotta al razzismo è destinata alla sconfitta?
Come ricordato, da qualche anno assistiamo a una strumentalizzazione della libertà di espressione per difendere un’identità autoctona e virile, tra l’altro a scapito delle minoranze razziali: usandola come scudo, si tenta di imporre nuovamente l’appartenenza razziale come chiave di lettura della realtà e come spiegazione dei comportamenti sociali. Si tratta di uno spiacevole passo indietro e temo che il razzismo torni di moda.