TANGRAM 43

È la fine della libertà di espressione? Un’opinione

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Myret Zaki è una giornalista economica della Svizzera francese. Dal 2014 al 2019 è stata caporedattrice della rivista di economia Bilan.
myretzaki@gmail.com

Dopo i fatti recenti, il dubbio è lecito: si possono avere ancora delle opinioni ed esprimerle pubblicamente senza essere perseguitati? L’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione». Questo principio, che tutela anche le idee divergenti, contestatarie, marginali o radicali fino a quando rimangono nei limiti consentiti dalla legge, costituisce un pilastro delle nostre democrazie. Non si è mai pensato di vietare le idee, le associazioni, i partiti o di punire e bandire chi la pensa diversamente. Non qui, non in Occidente.

Tuttavia, ed è un fatto allarmante, sempre più persone sono oggi perseguitate per le proprie idee e perdono il lavoro e la reputazione quando si discostano dal pensiero maggioritario, senza nemmeno essere state giudicate da un tribunale. Le loro prese di posizione, in particolare sulle reti sociali, li espongono a una tempesta mediatica, a pressioni enormi da parte dei loro datori di lavoro e poi alla perdita della loro funzione e a una sorta di messa al bando. Un «tribunale» parallelo impone la propria legge, quella della «pressione mediatica». Ora, la libertà di espressione non tutela soltanto le idee largamente condivise e che non danno fastidio a nessuno, dato che altrimenti sarebbe inutile: richiama proprio a tollerare la libera espressione di idee diverse, che suscitano polemiche. Come spiega la piattaforma di informazione humanrights.ch, «la libertà di espressione non vale soltanto per le opinioni che godono di ampio sostegno, ma anche per le idee scomode e scioccanti e persino per i discorsi lesivi della dignità di una persona che non rientrano ancora nella definizione di discorso d’odio».

Gli avvenimenti più recenti inducono tuttavia a pensare che, come nel caso di Pascal Mancini, non si possa essere un atleta in Svizzera e nutrire in privato idee nazionaliste e nemmeno, come nel caso di Fernand Melgar, esprimere pareri critici sullo spaccio di droga per le strade e insegnare nel contempo alla Scuola universitaria di arte e design (HEAD) di Ginevra. E non si può nemmeno, come James Damore, essere un ingegnere informatico presso Google e criticare la politica delle quote femminili. In tutti questi casi, non sono state infrante le leggi in vigore: si tratta di opinioni, espresse tra adulti, nient’altro che idee. Ciò nonostante, tutto si è svolto molto velocemente: senza essere riconosciute colpevoli di una qualsiasi infrazione, queste persone hanno perso la propria reputazione e funzione, finendo sotto «processo» e condannate dalla «pressione mediatica». È il regno del «pre-giudizio», delle voci che corrono. I giuristi non credono ai loro occhi, e nemmeno i difensori delle libertà e dei diritti fondamentali. E i casi si moltiplicano, in quella che sembra un’epidemia di censura.

La libertà di espressione, anche in Svizzera, è chiaramente minacciata. Xherdan Shaqiri, giocatore della nazionale di calcio svizzera e sostenitore di posizioni pro-albanesi, è stato quasi sospeso dalla FIFA per aver mimato l’aquila bicefala. Tutti questi casi assumono un carattere esemplare, incutendo paura agli osservatori rimasti a guardare: eccoli avvertiti.

La recente vicenda dell’atleta Pascal Mancini è emblematica al riguardo. Alla fine di luglio del 2018, un giornalista del «SonntagsBlick» pubblica un articolo per denunciare le presunte simpatie di estrema destra dello sprinter, facendo riferimento alla sua presenza a fianco di un fondatore del sito «Suavelos», che si dichiara «dedito al risveglio occidentalista e comunitario dei bianchi». Un’ideologia estrema? Senza dubbio. In un Paese democratico, però, non è vietato interessarsi a diverse correnti di pensiero, anche marginali, e farne menzione sul proprio profilo Facebook privato. E se è vietato, allora bisogna dirlo esplicitamente, in una legge. E decidere cosa si intende per libertà di espressione e se si vuole abolirla. Il seguito della vicenda mostra che un atleta svizzero non è libero di esprimere idee polemiche. L’articolo del «Blick» traccia un ritratto al vetriolo del corridore, tanto che nel giro di 24 ore per lui è finita, senza alcuna inchiesta e senza sentire le parti in causa. Un giornale può distruggere la reputazione di uno sportivo con una serie di supposizioni? L’articolo non menziona che la maggior parte delle idee condivise dallo sprinter sono piuttosto di stampo comunista (anche in questo caso, è suo diritto averle) e che si interessa liberamente a diverse ideologie cosiddette radicali. L’articolo cita anche un video postato da Mancini che mostra delle scimmie che si muovono in tutte le direzioni, e accusa il corridore di alludere ai giocatori neri della nazionale di calcio francese. Sembra che l’atleta di Estavayer-le-Lac abbia piuttosto voluto condannare i teppisti che si sono scatenati dopo la finale dei mondiali, ma il filmato presta indubbiamente il fianco ai peggiori sospetti. Mancini lo ha infatti postato senza alcun commento e non ha ritenuto opportuno precisare il suo pensiero o cancellare certi commenti a sfondo razzista. Inoltre ha anche pubblicato due vecchie citazioni, sicuramente non perseguibili penalmente ma attribuite a un esponente nazista. Nel complesso, dunque, una serie di errori, provocazioni e molta imprudenza. Le conseguenze sono immediate: senza che i fatti siano stati accertati da un organo competente, e senza che gli sia stato contestato un atto illecito secondo la norma penale contro la discriminazione razziale prevista dal diritto svizzero, Swiss Athletics gli revoca la licenza e lo sospende dalle competizioni. Timori per l’immagine, pressioni degli sponsor, i social media che si scatenano: la spirale che distrugge reputazioni e carriere è sempre la stessa e non passa più per le autorità giudiziarie. I codici di condotta e i regolamenti di organizzazioni sportive e imprese possono certamente imporre a membri e dipendenti l’osservanza di valori fondamentali come il rispetto dell’uguaglianza e della diversità. Da loro ci si aspetta un comportamento irreprensibile nell’esercizio delle loro funzioni. Ma questi codici di condotta e regolamenti possono limitare la libertà di espressione e di pensiero nella sfera privata? Bisogna astenersi dall’esprimere le proprie opinioni per poter lavorare da qualche parte? I regolamenti di una federazione o di un’impresa possono prevalere sulle libertà fondamentali sancite dalla Costituzione? Questi regolamenti includeranno presto elementi esplicitamente ideologici, che imporranno di aderire a certe idee politiche? Tutta una serie di domande che meritano di essere dibattute in maniera approfondita, se si vuole evitare che aziende e federazioni sportive diventino spazi antidemocratici in seno a società che si dicono democratiche. In ultima analisi, sono i principi della Costituzione che devono prevalere: «nessuno può essere discriminato a causa delle convinzioni politiche», «la censura è vietata» e «ognuno ha il diritto di formarsi liberamente la propria opinione, di esprimerla e diffonderla senza impedimenti». Ovviamente, i discorsi d’odio e qualsiasi forma di discriminazione razziale non sono in nessun caso tutelati dalla libertà di espressione. In questi casi, però, è necessario adire le vie legali, dimostrare il reato e pronunciare una sentenza. Per evitare qualsiasi fraintendimento: qui non si stanno difendendo le idee di un Mancini, di un Melgar o di un Damore, ma il loro diritto a esprimerle nei limiti consentiti dalla legge. E, in caso di violazione, il diritto a un procedimento giudiziario con tutti i crismi. La libertà di espressione deve essere difesa seriamente, perché altrimenti regnerà l’arbitrio e verranno a mancare le basi della democrazia.

Nel 1942, un poeta scriveva versi memorabili che terminavano così: «E per la forza di una parola, Io ricomincio la mia vita, Sono nato per conoscerti, Per nominarti, Libertà». All’epoca Paul Eluard non avrebbe mai immaginato che, otto decenni più tardi, ciò che gli stava così tanto a cuore sarebbe diventato un retaggio del passato, un’anticaglia fuori moda in grado di far sognare ormai solo pochi.

La nostra epoca ha un problema con la libertà di espressione e la libertà di pensiero, trattate come una vecchia signora rispettabile, viepiù messa da parte e relegata in fondo a un salone... per essere, presto, calpestata? Libertà, questo concetto così ottocentesco. «Più le libertà fondamentali sembrano acquisite, meno i cittadini vi si sentono legati», affermava a fine luglio su «Le Monde» Chloé Morin, direttrice di progetto presso la società Ipsos, in riferimento a un rapporto di Human Rights Watch che dimostra che sono proprio i Paesi democratici a essere maggiormente soggetti alle derive populiste.

Oggi questa conquista umana che è la libertà non rappresenta più una priorità. L’opinione di qualcuno è sempre una minaccia per qualcun altro. Ogni presa di posizione degli uni è considerata blasfema dagli altri, anche quando non viola alcuna legge. Ogni parere irrita qualcuno o va contro gli interessi di qualcun altro.

Le richieste di dimissioni si succedono senza soluzione di continuità sulle reti sociali, una deriva che restringe sempre più i confini della libertà di pensiero. Si domanda a chiunque si esponga mediaticamente di smettere di avere il benché minimo parere. Le opinioni non politicamente corrette presto non saranno più ammesse pubblicamente in bocca a personalità influenti. Pensatori e intellettuali costituiscono del resto le nuove bestie nere dei governi. In Francia, Onfray, Zemmour e Todd sono tenuti a bada, tutti e tre direttamente criticati dall’ex ministro Manuel Valls. Nel mondo, Assange e Snowden sono latitanti.

Accettare di discutere di tutto con l’ausilio della ragione, rispondere a un’argomentazione con un’argomentazione contraria in un clima di relativa calma e rispetto sta diventando l’eccezione. Cosa ha posto fine al dispotismo della monarchia francese? Non la sinistra, ma la ragione. Il primato della ragione sulla fede. L’Illuminismo. La coesistenza pacifica di fedi diverse, propugnata da Voltaire nel suo «Trattato sulla tolleranza» (1763), oggi sta morendo. Si lotta contro le opinioni ricorrendo a minacce, intimidazioni, denigrazioni, isterismi e infine all’esclusione. Il giornalista del «Blick» non è in grado di controbattere le idee di un Mancini con argomenti ideologici; al contrario è però capace di tracciarne un ritratto privo di sfumature, che rende l’atleta infrequentabile per Swiss Athletics, che, sotto pressione, infligge una sanzione ancor prima che la giustizia abbia sentito parlare del caso, in totale dispregio del principio del processo equo.

Il deficit democratico delle nostre società sta diventando palese malgrado si pretenda il contrario. In Francia, il progetto di legge «anti-fake news» voluto da Macron e sostenuto dai deputati di «En marche», denominato «lotta alle false informazioni», contiene i germi di una deriva totalitaria, dato che tutto si baserà sulla definizione statale di «falsa informazione». Si tratta di un’informazione di cui si può provare l’inesattezza o in questa categoria rientra tutto ciò che non piace al potere? Lo Stato, nei confronti del quale i media si erigono a contropotere, è nella posizione di certificare i media affidabili e i media fasulli? In una società veramente democratica, una cosa simile sarebbe esclusa.

Ciò che oggi manca all’appello è la giustizia, è uno Stato di diritto attivo, è il rispetto della libertà fondamentali, in un’epoca in cui le reti sociali servono da finestra per spiare i pensieri e le menti e distruggere carriere e reputazioni. Diderot scriveva che «nemmeno centomila anni di decadenza riuscirebbero a cancellare l’eredità di Voltaire». Si è sbagliato? Il vittorianesimo intellettuale che stiamo vivendo produce effetti perversi. Presto nessuno oserà più rimettere in discussione i dogmi, che Voltaire ha passato tutta la vita a combattere. Gli sportivi, gli intellettuali, gli artisti e i politici penseranno soltanto a promuovere sé stessi, e rimarremo soffocati dalla sterilità del pensiero.

Ma gli effetti della censura sono anche peggiori e rappresentano un pericolo superiore a quella libertà tanto temuta: la censura, infatti, radicalizza gli oppositori, alimenta la sovversione, la clandestinità e la rivolta, favorisce l’emergere di movimenti di lotta e finisce per far implodere le società.

È con questa nuova censura che si arriverà a un’«epurazione» delle idee cattive, in modo da tenere soltanto quelle buone? È così che si otterrà una società tollerante, egualitaria, scevra dal razzismo e dall’odio? Tutt’altro. Con i soldi, le idee – buone o cattive, ma anche ripugnanti – propugnate dai grandi gruppi di interesse potranno occupare il centro della scena. E senza soldi, le idee – buone o cattive, ma anche le più nobili – potranno essere combattute dai grandi gruppi d’interesse opposti che negheranno loro il posto sulla scena.

Perché tutt’a un tratto fa così buio? Perché è in questo istante che Voltaire si spegne.