Autore
Dottoressa in scienze sociali, Laurence Kaufmann è professoressa all’Università di Losanna. laurence.kaufmann@unil.ch
Le teorie del complotto non sono tanto teorie, quanto piuttosto pratiche politiche che non esprimono la verità di un fatto, bensì la realtà di un rapporto sociale interpretato e reinterpretato continuamente.
Tra i mesi di luglio e agosto del 1789 si sparse la voce di un complotto degli aristocratici: si mormorava che stessero tentando di fuggire dalla Francia con tutto l’oro del regno per assoldare mercenari sanguinari e mandarli a radere al suolo i villaggi, distruggere i raccolti del Terzo Stato e ripristinare la monarchia assoluta. Scatenando in tutto il Paese rivolte contadine senza precedenti, i moti della cosiddetta Grande Paura, quella gigantesca fake news incitò i contadini a unirsi al movimento rivoluzionario, di origine piuttosto urbana, avviato dalla riunione degli Stati generali. Il potere fenomenale di quelle voci, che provocarono il saccheggio e la distruzione di castelli, abbazie e priorati da parte di contadini impauriti muniti di pale e forconi, ci esorta a riflettere su elementi troppo spesso dimenticati nelle riflessioni sui complotti. Da un lato, le voci di complotto non possono essere spiegate con tratti della personalità o determinanti cognitivi interni (nello specifico la violenza arcaica dei contadini), ma rivelano anzitutto un rapporto sociale, quello della sottomissione politica e dello sfruttamento economico dei «piccoli» da parte dei «grandi», da cui si aspettano rispetto, protezione e sostentamento. Dall’altro, le voci di complotto esprimono però anche emozioni quali paura, sfiducia, rabbia e indignazione. In un contesto sociale ed economico contraddistinto da fame, tensione politica, esasperazione antisignorile e brigantaggio dei saccheggiatori, la narrazione complottista spiega il corso caotico degli eventi e trasforma in azione collettiva il sentimento fondamentalmente apolitico di preoccupazione e impotenza.
Questo breve excursus nel XVIII secolo ci permette di tornare con un certo distacco alle voci di complotto che oggi, negli spazi pubblici o semipubblici contemporanei, sono ridefinite come teorie del complotto. Questa espressione, coniata dagli avversari del complottismo, è ingannevole perché convalida le pretese epistemiche di una prassi che solo superficialmente assume i contorni di un’indagine scientifica. Il metodo di produzione della verità scientifica fa infatti leva su un’attività d’indagine a tutto campo, basata sull’assunzione di prove, sulla resistenza alla falsificazione, sulla raccolta pubblica di dati e su un modo preciso di relazionarsi con gli altri, nello specifico quello, assolutamente inclusivo, dell’argomentazione. Nelle retoriche cospirazioniste, invece, non vi è traccia di un’indagine del genere, aperta e articolata, per il semplice motivo che il motore non è epistemico, ma politico. Le teorie del complotto non sono teorie: come le voci del XVIII secolo, sono piuttosto pratiche politiche che non esprimono la verità di un fatto, bensì la realtà di un rapporto sociale interpretato e reinterpretato continuamente. Proprio perché esprimono la realtà di un rapporto sociale, le voci complottiste resistono a qualsiasi smentita fattuale e dimostrazione della verità.
Di quale rapporto sociale sono sintomo le accuse complottiste che invadono le arene digitali? Della delusione e della sfiducia suscitate da istituzioni democratiche che dovrebbero agire per conto e al servizio del pubblico, ma che, dietro le quinte del potere, infrangono le norme che ufficialmente sostengono. Tale delusione – o sfiducia – sembra giustificata per vari motivi. Il più delle volte, le istituzioni politiche si affacciano sulla scena pubblica per invocare i meccanismi opachi della (de)regolamentazione economica e ammettere la loro impotenza – un’impotenza che, come abbiamo visto, le voci di un complotto mirano appunto a superare. Sparsi e difficilmente identificabili, gli organismi economici e finanziari si sottraggono alla prova della pubblicità, nel duplice senso di visibilità e apertura al giudizio critico, che garantisce il buon funzionamento di uno spazio pubblico democratico. Non vi è quindi da stupirsi che la scena pubblica, segnatamente nelle situazioni di crisi (p. es. attacco terrorista, pandemia), sia percepita come il luogo della finzione, mentre chi sta dietro le quinte si vede investito di un potere occulto.
Il problema sollevato dalle retoriche cospirazioniste non è quindi la sfiducia, che di per sé non ha nulla di patologico, né tanto meno il tentativo di superare lo stato d’impotenza e la partecipazione senza partecipazione di un pubblico su chiamata, tenuto a distanza o escluso dai veri luoghi della decisione politica. Il problema sta nella trasformazione della sfiducia in una forma morbosa di paranoia, che collega le disparità e le ingiustizie strutturali a causalità intenzionali, vuoi personali (p. es. Soros, Hilary Clinton) vuoi categoriali (p. es. gli ebrei, i migranti). In un’opposizione tra loro e noi, che assume le sembianze nefaste di una lotta tra il bene e il male, le accuse complottiste si rifiutano di entrare nei circuiti ufficiali del diritto e di utilizzare gli strumenti giuridici offerti da quest’ultimo. Tale rifiuto si spiega con l’eccessiva generalizzazione del dubbio e della sfiducia, che dissolve la logica potenzialmente giuridica dell’accusa pubblica nel registro fantasmatico, confinato e privativo del sospetto. L’immaginario complottista ruota quindi attorno alla degiudiziarizzazione e alla privatizzazione dell’atto d’accusa e, dunque, al rifiuto di qualsiasi risoluzione pubblica dei confitti, alla revoca di qualsiasi mediazione istituzionale. Il «complottismo» lancia accuse al di fuori delle istituzioni e si rifiuta di convalidare le distinzioni tra legge, potere e sapere su cui si fonda la democrazia. Se tuttavia legge, potere e sapere si confondono e si perdono, il conflitto è deistituzionalizzato e diventa brutale.
Finora ci siamo concentrati sulle voci di complotto e su quelle, non ufficiali, diffuse dai ceti sociali esclusi dal potere, che goffamente cercano di colmare la mancanza di informazioni sui fatti e sui gesti dei governanti. L’efficacia a singhiozzo di questo filone dipende dalle cospirazioni di cui si fa portavoce. L’evocazione ricorrente, segnatamente da parte delle giovani generazioni, del complotto dei rettiliani che starebbero invadendo la Terra – peraltro piatta, contrariamente a quanto pretendono tutti coloro che sostengono che l’uomo sia stato sulla Luna – resta relativamente inoffensiva: è dovuta infatti in gran parte alla socialità generata dalla condivisione tra pari di una conoscenza iniziatica, di un insieme di segreti il cui valore principale sta nell’esclusività. Il discorso cambia quando le narrazioni complottiste stigmatizzano ed essenzializzano intere categorie di persone, attribuendo loro una «causalità diabolica», come il tremendo «Protocollo dei Savi di Sion», che accusa gli ebrei e i massoni di fomentare la conquista del mondo.
Al percorso ascendente («bottom-up») dei sospetti cospirazionisti che invadono le arene non ufficiali, una sorta di spazi simbolici che traducono una deregolamentazione dei riferimenti istituzionali, si affianca un percorso altrettanto significativo: quello discendente («top-down») delle retoriche complottiste che costellano i discorsi istituzionali, segnatamente statali. Se la retorica cospirazionista informale che invade gli spazi digitali è inquietante, l’inflazione dei discorsi paranoici a livello di istituzioni lo è ancora di più. Le nuove retoriche populiste che invadono lo spazio pubblico, sia in Europa (V. Orban, M. Salvini), sia in Sud America (J. Bolsonaro) che negli Stati Uniti (D. Trump), privilegiano infatti uno stile di pensiero paranoico, che prende forma in opposizione a un nemico comune. È risaputo che il ricorso alla figura del nemico, interno o esterno, è una strategia pericolosamente efficace: facendo della sopravvivenza culturale, religiosa o «etnica» della comunità una sfida centrale, si mettono in stand-by le discordanze o dissonanze interne che potrebbero essere generate dalle ingiustizie sociali ed economiche. Il corpo politico deve mettere da parte i propri dissensi e unire le forze contro un avversario ostile e spietato, nascosto negli abissi (compresi quelli dello Stato, il famoso «deep state»). Il conflitto manicheo inscenato dalla retorica cospirazionista dei populisti, veri e propri imprenditori del risentimento, rende impossibile il giudizio critico, spassionato o misurato di un pubblico di spettatori. Chiamato in causa quale potenziale vittima di una violenza senza pietà, assediato da una politica della paura che risveglia i suoi istinti di sopravvivenza e il suo senso di lealtà, il pubblico è costretto a schierarsi. «La morte alle calcagna», non può permettersi di avviare un’indagine pubblica sugli abusi di potere o di fare il difficile su questioni sociali che riguardano l’educazione, la salute o la disoccupazione. Trasformata in politica di Stato, la retorica cospirazionista diventa così un gioco di disgregazione morale ed epistemica spinto all’estremo dalla ricerca, prettamente complottista, delle fake news.
Nella misura in cui esprime non la verità di un fatto, bensì la verosimiglianza di un rapporto sociale, l’immaginario complottista può benissimo ritrovarsi al servizio sia del potere dei governanti, ossessionati dalla paura di perdere il controllo dei governati, sia della resistenza dei dominati, scorticati dagli abusi dei potenti. Entrambi sono protagonisti di un rapporto sociale radicalmente antagonista. Visto «dall’alto», questo rapporto sociale dà al «comandante in capo» il potere di screditare qualsiasi critica e stigmatizzare gruppi sociali (p. es. la carovana dei migranti di Trump, il cancro omosessuale di Bolsonaro), associandoli a un’intenzionalità malevola e distruttrice. Visto «dal basso», invece, questo rapporto sociale antagonista è quello che oppone il noi dei piccoli, dei lavoratori e degli sfruttati al loro dei ricchi e dei benestanti, che moltiplicano le strategie occulte, le menzogne e le manipolazioni per mettere a tacere noi. È questo rapporto sociale che denunciano le voci di complotto di rapimento di bambini, che si ritrovano sia nei moti parigini del XVIII secolo sia nelle sommosse americane dei QAnon del XXI secolo.
Al di là delle loro differenze, questi due percorsi cospirazionisti, uno discendente e l’altro ascendente, puntano su uno stesso immaginario manicheo: quello della lotta tra il bene e il male, tra la luce dei giusti e la cospirazione delle tenebre. Questo immaginario è paradossalmente poco immaginativo. Invece di essere orientato al futuro, l’universo che propone fa leva sulla conferma e sulla reiterazione della colpevolezza di coloro (potenti, perdenti, profittatori, stranieri o traditori) che sfidano la capacità di sopravvivenza della comunità. L’immaginario complottista priva i rapporti sociali di ogni spessore temporale, di ogni densità sperimentale: la storia ha un unico senso, già scritto, che è quello di un complotto permanente, che trama in uno spazio chiuso, le cui frontiere separano gli esseri morali da quelli immorali.
Impermeabile a qualsiasi principio di realtà, l’immaginario complottista sottostà a un razionalismo morboso, che si allontana dai conflitti reali per volgersi verso lotte immaginarie. Ecco perché il complottismo si allea così bene con altre forme patologiche di rapporto sociale, segnatamente il razzismo, il sessismo e l’antisemitismo: perché riduce un insieme di esseri umani a un’unica caratteristica (p. es. straniero, nero, messicano, ebreo, migrante, donna), escludendo tutte le altre. Come tutti i processi di stigmatizzazione, tende a prolungare la prima tappa, quella della spersonalizzazione, aggiungendone una seconda, quella della degradazione o della disumanizzazione, come evidenzia l’espressione «cancro dei migranti». La tesi complottista della «grande sostituzione», molto gettonata negli ambienti di estrema destra in Europa e tra i suprematisti bianchi negli Stati Uniti, designa il progetto d’«invasione migratoria» e di «sostituzione etnica» fomentato dai nuovi «barbari», segnatamente musulmani. Ordita con la complicità delle élite, questa cospirazione criminale minaccerebbe l’identità bianca e cristiana. Puntando sulle paure identitarie, il «sostituzionalismo» propone un’ideologia bell’e pronta e di facile impiego, a prescindere dallo spazio culturale, geografico e storico. I contorni vaghi e la struttura polemica che lo caratterizzano lo rendono infatti facilmente infiammabile: l’altro è per principio una figura minacciosa, un essere a noi estraneo, il cui destino non ci interessa o, peggio, la cui differenza ci irrita.
Reinterpretato in chiave identitaria, il complottismo mette in scena una comunità ripiegata su sé stessa, incapace di aprirsi verso l’esterno (impuro per definizione). L’unica politica che può difendere non è una politica nel vero senso del termine, bensì una terapia: si tratta di unire le forze sociali ancora sane per eliminare e purificare gli elementi corrotti, malefici, infiltrati o insalubri che minacciano la purezza del corpo sociale. Il complottismo identitario, che fa leva sull’essere anziché sull’agire, si schiera all’opposto ripristinando così, attraverso la negatività, l’unità della comunità a cui ambisce. Una tale comunità, fondata su un principio d’identità anziché su un orizzonte di azione, è incivile per definizione: nella sua differenza biografica e nelle sue peculiarità culturali, l’altro è dipinto come uno scandalo, che nuoce all’identità individuale e collettiva, la quale dovrebbe essere difesa a tutti i costi. Facendo apparire il fantasma di un’identità assolutamente pura, non può scendere a compromessi con la diversità o il disaccordo, che interpreta unicamente come sinonimi di tradimento o corruzione. E non può far altro che combatterli, anche al suo interno.
Appare chiaro che l’immaginario complottista è l’espressione di un rapporto sociale antagonista che, nello spazio pubblico, si colloca a cavallo fra azione e parola. Alle retoriche cospirazioniste, che si diffondono nelle varie bolle informatiche degli spazi digitali, si contrappongono, in una sorta di specchio rovesciato, i giochi di ombre che il potere dello Stato imputa ai suoi oppositori. In entrambi i casi, lo spazio pubblico come luogo pacificato di deliberazione e confronto delle opinioni si ritrova letteralmente abbandonato, mentre lo spazio dietro le quinte si ritrova investito di un potere assolutamente incivile. Una simile inciviltà, secondo me, non può essere neutralizzata con una controargomentazione finalizzata a ripristinare la verità e la ragione nei confronti e a dispetto dei presunti creduloni, impantanati nelle loro lacune cognitive e nelle loro distorsioni epistemiche. La risposta può essere unicamente di tipo relazionale: i gruppi cospirazionisti, infatti, acquistano forma e senso quando vengono posti in relazione con ciò che pretendono di negare e rifiutare.
Come risolvere la disaffezione incivile per i nostri spazi pubblici democratici? Il complottismo è la manifestazione di una spaccatura sociale che occorre colmare, segnatamente ripristinando una serie di mediazioni tra la società civile e gli ambienti mediatici, educativi, scientifici e politici. Anziché continuare ad appellarsi alla democrazia come forma politica fredda e scheletrica, limitata all’elezione dei rappresentanti, bisognerebbe ripristinare l’idea sociale di democrazia come scambio di opinioni reciproco, libero e simmetrico. Soltanto la concretizzazione di questa idea può avere la meglio sulla società a doppio fondo che ossessiona l’immaginario contemporaneo, sia degli Stati cospirazionisti sia delle reti sociali non ufficiali, sia, in misura minore, del dirimpettaio «anticomplottista». Al tempo stesso bisogna evitare che la logica binaria e antagonistica del loro contro di noi, che irrigidisce il complottismo, s’imponga irreversibilmente.
Bibliografia:
Arendt H. ([1954] 1972). La crise de la culture. Paris : Gallimard.
Favret-Saada J. (2011), « La mort aux trousses », Penser/Rêver, no 20, pp. 207-220.
Hofstadter R. ([1964] 2012). Le Style paranoïaque. Théories du complot et droite radicale en Amérique. Paris : François Bourin Éditeur.
Kaufmann L. (2018). Debunking deference: the delusions of unmediated reality in the contemporary public sphere. Javnost, The Public, 25 (1/2), pp.11-19.
Lefebvre G. (1988 [1932]), La grande Peur de 1789. Paris : Armand Colin.
Lefort C. (1978). Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie politique. Paris : Gallimard.
Poliakov L (1980), La Causalité diabolique. Paris : Calmann-Lévy.
Terzi C. (2016), « Peut-on construire des minarets en Suisse ? Les errements de la démocratie directe face à une question déplacée ». Esprit, no 429, pp. 100-114.