TANGRAM 48

«I media potrebbero assumere maggiormente il ruolo di voce della ragione»

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Linards Udris è assistente in capo all’Istituto di scienze della comunicazione e ricerche sui media (IKMZ) e membro della direzione del Centro di ricerca sulla sfera pubblica e la società (fög) dell’Università di Zurigo. l.udris@ikmz.uzh.ch

Intervista a cura di Theodora Peter

Secondo il ricercatore Linards Udris, in Svizzera i media professionali svolgono un ruolo importante per il dialogo nella società, a condizione che possano praticare un tipo di giornalismo non impostato, per motivi commerciali, sulla corsa sfrenata ai clic.

Come si manifesta la polarizzazione sociale nel panorama mediatico svizzero?
Linards Udris: Il fenomeno della polarizzazione è relativamente poco presente nel panorama mediatico svizzero. Per trovarne conferma basta analizzare i tre ambiti in cui potrebbe manifestarsi: i proprietari dei media, i contenuti e il pubblico. Iniziando dai primi, riscontriamo che oggi non hanno praticamente più legami con la politica. In passato, con i media di partito, la situazione era diversa. Nel tempo i legami con i partiti politici si sono allentati e oggi rimane soltanto qualche rara eccezione come la «Weltwoche», il cui editore è membro dell’UDC.

Come si presenta la situazione a livello di contenuti?
A questo riguardo è opportuno chiedersi se vi siano media che si schierano in prevalenza a destra o a sinistra. In Svizzera non è praticamente mai il caso. In uno studio abbiamo analizzato la copertura mediatica delle votazioni. In questo contesto ci si potrebbe aspettare che i temi trattati siano fortemente polarizzanti, invece la copertura è risultata globalmente equilibrata. Fanno eccezione testate come la «Wochenzeitung» che tende a presentare posizioni di sinistra o la «Weltwoche» che si colloca piuttosto a destra.

Per motivi commerciali, i media sono generalmente interessati a temi che trovano risonanza nel pubblico. In termini di valore delle notizie, si tratta di argomenti divisivi, con una forte carica emozionale e un potenziale di spettacolarizzazione.

Che cosa può dirci in merito alla polarizzazione del pubblico?
Anche in questo ambito il fenomeno risulta piuttosto limitato. Lo dimostrano i risultati dei sondaggi condotti annualmente dal Reuters Institute Digital News Report, che analizziamo per la Svizzera. In queste indagini si chiede ai partecipanti di posizionarsi in una scala da destra a sinistra e di indicare il proprio consumo mediatico. Dai dati acquisiti risulta che i media ad ampia diffusione hanno un pubblico che corrisponde in larga misura alla media svizzera. Non si può quindi affermare che determinati media siano seguiti soltanto da persone di destra o soltanto da persone di sinistra. L’esempio opposto è quello degli Stati Uniti, dove determinati canali sono seguiti piuttosto da chi è di destra o piuttosto da chi è di sinistra, un dato misurabile anche empiricamente. Questa è un’ulteriore dimostrazione del fatto che i fenomeni sociali degli Stati Uniti non possono essere riportati alla Svizzera, dove le condizioni sono totalmente diverse.

Ritiene che la diffidenza nei confronti dei media «mainstream» in Svizzera sia in aumento? Quali sono gli eventuali segnali?
Prendiamo come esempio quanto è accaduto durante la pandemia di COVID-19, un periodo di crisi che ha suscitato molta incertezza e durante il quale le persone cercavano punti di riferimento. In periodi come questi, le istituzioni sono spesso oggetto di critiche. La ricerca indica che i media sono visti come parte di queste istituzioni, o come parte dell’«élite». Si osserva peraltro che le persone diffidenti nei confronti della politica spesso lo sono anche nei confronti dei media. La loro diffidenza non è quindi rivolta verso i media in quanto tali, bensì verso le maggioranze sociali. In generale è difficile misurare la fiducia o la diffidenza nei confronti dei media, visto che alla domanda in tal senso non si può sempre rispondere «sì» o «no». Del resto la ricerca insegna che un certo grado di scetticismo è appropriato e importante. In Svizzera, il 40–45 per cento della popolazione ha fiducia nella maggior parte dei media. Questo non significa che il restante 55 per cento sia diffidente. Considerato che un quarto non si esprime in merito, si può desumere che soltanto un quarto sia diffidente, una diffidenza che, come spiegato prima, spesso si accompagna a un disagio nei confronti della politica.

Si osserva una tendenza all’insorgere di piattaforme mediatiche «di parte» che si focalizzano su un pubblico specifico?
In Svizzera non si assiste a un ritorno dei media vicini ai partiti e nemmeno alla proliferazione di «media alternativi» dediti alla propaganda, alla disinformazione e al complottismo. In un sondaggio realizzato durante la pandemia, il nostro centro di ricerca ha sottoposto ai partecipanti un elenco di «media alternativi». Soltanto il 10 per cento degli interpellati ne aveva già sentito parlare, contro l’80 per cento che non aveva idea dell’esistenza di piattaforme come «Breitbart», «Russia Today», «Tichys Einblick», «Compact-Magazin» o «Les Observateurs».

Sempre meno persone consumano notizie «classiche». Quali sono le conseguenze nel contesto della polarizzazione?
La news deprivation o deprivazione di notizie, ossia il fatto di non consumare – o quasi – notizie, può essere riconducibile a una certa diffidenza nei confronti dei media. Un’altra spiegazione è il disinteresse generale per le notizie, non necessariamente legato a un disagio nei confronti della politica o dei media. Non si può quindi affermare che la polarizzazione sia una delle cause principali della diminuzione del consumo di notizie. Direi piuttosto che il codice secondo cui informarsi fa tendenza ed è importante non è più così assoluto. A ciò si aggiunge che a lungo andare determinati argomenti, come il conflitto nel Vicino Oriente, possono generare indifferenza. Il fenomeno, detto anche «evitamento delle notizie», è oggetto di ricerche e non riguarda soltanto le persone che consumano poche notizie in generale, ma anche i «drogati» dell’informazione che, per un certo periodo, evitano determinati argomenti perché hanno già consumato molti contenuti al riguardo.

L’importanza dei social media come fonti d’informazione è in crescita. Quali sono i pericoli associati a questo fenomeno?
Le notizie hanno vita dura sui social media, dove sono in concorrenza con un’infinità di temi e fonti. In particolare i giovani sono convinti che se succede qualcosa saranno informati dalla loro cerchia di amici, per cui non ritengono necessario sottoscrivere un abbonamento a uno o più canali d’informazione. Il pericolo è, da un lato, che non ricevano molte notizie e, dall’altro, che queste siano poco diversificate. Le persone che si informano su Instagram o TikTok rischiano di incappare in fonti inattendibili. Sono inoltre poco propense a sostenere il giornalismo professionale o un determinato marchio mediatico. Va inoltre considerato che piattaforme come Google si assicurano fette sempre più importanti della torta pubblicitaria, con conseguenze fatali per i media classici, che dispongono di sempre meno introiti pubblicitari per finanziare i propri servizi. I social media hanno invece il vantaggio di permettere a gruppi che non trovano ascolto nei media di fare rete e attirare l’attenzione, anche se in questo modo non viene necessariamente data una maggiore risonanza pubblica alle parti svantaggiate.

Benché i media svizzeri propongano contenuti di qualità, la varietà tematica diminuisce. Vi è il rischio che determinate minoranze spariscano dai media?
Sì e no. Le minoranze sono spesso menzionate nei media, soprattutto quando il tema affrontato è quello degli stranieri, caro ai mezzi d’informazione della Svizzera tedesca. In questo caso tendono però a essere considerate un problema e sono trattate in modo molto generico. Si parla delle minoranze, ma le stesse hanno poche possibilità di esprimersi e raramente possono farlo in modo differenziato.

Quale ruolo giocano i media pubblici e privati in Svizzera nell’ottica del dialogo sociale?
Dovrebbero giocare un ruolo importante, e per ora lo fanno. I media professionali sono tuttora utilizzati da ampie fasce della popolazione. Tra questi figurano anche i media sensazionalistici e quelli destinati ai pendolari, che spesso enfatizzano le notizie, ma che operano in base a un codice deontologico e non fanno disinformazione. Offrono visibilità ai diversi attori e ne verificano le argomentazioni. In questo senso svolgono un ruolo molto importante come piattaforme di moderazione nel dibattito pubblico. Vi faccio un esempio: in occasione della votazione sull’iniziativa anti-burqa del 2021 abbiamo messo a confronto i servizi dei media tradizionali e i contenuti pubblicati sull’allora Twitter, dove il dibattito era molto più polarizzato. Le voci musulmane più conservatrici, specie quelle femminili, non sono praticamente intervenute sulla piattaforma sociale. Per i loro servizi, i media hanno invece cercato attivamente il contatto con la comunità musulmana. Ciò dimostra che i media professionali si impegnano per dare risonanza a un determinato spettro di attori e che cercano attivamente il contatto con loro. Nei social media, invece, riescono a imporsi soltanto le voci più forti, mentre quelle «normali» vengono ignorate.

In generale, che cosa possono fare i media per contrastare la crescente polarizzazione sociale?
I media dipendono in una certa misura dalla cultura politica e dal sistema politico di un Paese. Molto di quanto troviamo nei media è riconducibile proprio a questa realtà. In Francia, per esempio, dove il sistema politico dà centralità al presidente, la personalizzazione è più marcata che in Svizzera. Anche i rapporti tra i partiti si riflettono nei media. Gli attori politici hanno dunque una grande responsabilità per il modo in cui conducono i dibattiti. Dal canto loro, i media devono essere sufficientemente forti per tenere testa alla politica e non devono essere costretti, per motivi commerciali, a puntare sulla spettacolarizzazione per generare più clic. Affinché ciò sia possibile, il giornalismo deve avere solide basi economiche. Questo permetterebbe ai media di assumere maggiormente il ruolo di voce della ragione. Ritengo inoltre importante cercare di avere un sano rapporto con l’incertezza e la non conoscenza. A tal fine occorrono competenze mediatiche e pensiero critico, sia nelle scuole che tra gli adulti. Dovremmo imparare ancora di più ad accettare di non sapere sempre tutto e ad esimerci dal prendere sempre posizione.