Autor
Olivier Massin è professore di filosofia generale all’Istituto di filosofia dell’Università di Neuchâtel. olivier.massin@unine.ch
Nelle nostre democrazie liberali, vi sono due visioni contrapposte del razzismo: alcune persone ne celebrano il livello storicamente basso, altre ne denunciano l’onnipresenza. Dopo aver presentato l’ideologia nota come «wokismo», questo articolo respinge la tesi secondo cui tutte le disparità razziali sono dovute al razzismo.
Nelle nostre democrazie liberali, vi sono due scuole di pensiero radicalmente opposte sul tema del razzismo. Secondo gli ottimisti, il razzismo e la schiavitù sono una costante nella storia dell’umanità e le nostre democrazie rappresentano l’eccezione più eclatante, poiché per prime hanno identificato e combattuto questi due flagelli. Ma non solo: se ne sono praticamente liberate. La schiavitù è stata quasi interamente estirpata, il razzismo è ai minimi storici e la società manifesta un’apertura e un interesse per le altre culture come mai prima d’ora. Secondo i pessimisti, invece, questa visione è frutto dell’ignoranza, se non dell’ipocrisia: lungi dall’essere la più tollerante della storia, la nostra società è impregnata, anche a livello strutturale, di un razzismo dilagante e persistente, eredità di una triste storia di cui non si parla volentieri. Onnipresenti, le disparità razziali – di reddito, di salute e nell’accesso al lavoro, all’educazione, all’alloggio, alla cultura, alla giustizia e agli impieghi di responsabilità – sono sintomo dell’ampiezza delle discriminazioni implicite e sistemiche in atto nella nostra società.
Sono un cauto ottimista: il razzismo è ancora presente nella nostra società, ma la situazione è decisamente migliorata rispetto al passato. Ritengo che la tesi dell’onnipresenza del razzismo si basi su ipotesi contestabili dal punto di vista empirico e concettuale.
Secondo una teoria corrente, il wokismo sarebbe solamente un mito, un panico morale promosso dai conservatori per denigrare le idee progressiste. La realtà è un po’ diversa: il wokismo è una vera e propria ideologia, ma siccome il termine ha assunto una connotazione peggiorativa, coloro che vi si riconoscono, naturalmente, non vogliono essere etichettati come tali. Anziché parlare di wokismo, sarebbe quindi opportuno parlare di «politica dell’identità», un’espressione che ha il vantaggio di essere accettata sia dai detrattori che dai sostenitori di questa ideologia. Una volta stabilito che il wokismo e la politica identitaria esistono, possiamo provare a fornirne una definizione.
Il wokismo è un’ideologia politica recente, che si aggiunge alle tre ideologie politiche finora dominanti nelle nostre democrazie liberali: il liberalismo, il socialismo e il conservatorismo. Le ideologie politiche sono notoriamente difficili da definire e il wokismo non fa eccezione. Tuttavia, possiamo identificare tre tesi fondamentali che lo caratterizzano e che saranno presentate sinteticamente di seguito.
1. L’onnipresenza dell’oppressione
Secondo la politica dell’identità, le nostre democrazie liberali sono costruite su relazioni di oppressione onnipresenti e nascoste, che permeano tutte le situazioni della vita quotidiana, anche quelle all’apparenza più innocue. Occorre quindi rendersene conto e «risvegliare» la propria attenzione (da cui il termine woke). L’idea che la nostra società sia pervasa da relazioni di oppressione si trova già nel pensiero di Marx. Per il filosofo tedesco, queste relazioni hanno tuttavia carattere economico: è lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti a consentire l’oppressione latente e onnipresente. Per contro, la politica identitaria sostiene che l’oppressione latente sia caratterizzata innanzitutto da un insieme di discriminazioni sociali e simboliche. Non è l’onnipresenza dello sfruttamento a rendere la nostra società fondamentalmente ingiusta, bensì quella del razzismo, del sessismo, della transfobia, dell’eteronormatività, dell’abilismo, della grassofobia ecc. L’onnipresenza di discriminazioni nascoste spiegherebbe le disparità persistenti tra vari gruppi. Ad esempio, il fatto che le minoranze razziali siano sottorappresentate tra le persone diplomate sarebbe il risultato di discriminazioni razziali latenti.
2. L’identità come costrutto sociale
La seconda tesi riguarda l’aspetto identitario del wokismo, motivo per cui si parla di politica identitaria: la nostra identità individuale sarebbe costituita dalla posizione che occupiamo nelle strutture di potere oppressive citate sopra. I sostenitori della politica identitaria si oppongono al cosiddetto «essenzialismo», che consiste nell’assegnare alle persone caratteristiche universali immutabili, generalmente di tipo biologico. Piuttosto, la nostra identità sarebbe un costrutto sociale: possiamo essere oppressori od oppressi in virtù di caratteristiche quali sesso, genere, orientamento sessuale, razza, peso, capacità ecc. Queste relazioni di oppressione non si limitano a sommarsi. Secondo la teoria dell’intersezionalità sviluppata da Kimberlé Crenshaw, esse si rafforzano e si modificano a vicenda per costituire identità individuali (p. es. donna nera senza disabilità).
Questa seconda tesi consente di capire perché offese che prima sembravano di poco conto vengono invece considerate gravi dai sostenitori del wokismo: perché intaccano l’identità stessa delle persone oppresse. Alcuni esempi sono il misgendering, ossia il rivolgersi o riferirsi a qualcuno usando il genere sbagliato, l’appropriazione culturale o la celebrazione di grandi figure storiche implicate anche soltanto in maniera marginale nella schiavitù o nel colonialismo: queste pratiche tangono l’identità di minoranze emarginate e pertanto relativizzarne l’importanza equivarrebbe a convalidare le strutture di oppressione esistenti.
3. La superiorità dell’esperienza delle vittime
La terza tesi alla base della politica dell’identità è la seguente: unicamente le persone che ne sono vittima possono conoscere, per esperienza diretta, le relazioni di oppressione. In opposizione alle concezioni «tecnoscientifiche», «maschiliste», e «disincarnate» dell’oggettività, la filosofa femminista Donna Haraway sostiene in un autorevole articolo (1988) una «visione femminista dell’oggettività», che consiste in un’«epistemologia del punto di vista». Secondo Haraway, non c’è un punto di vista neutrale e «soltanto le prospettive parziali promettono una visione oggettiva». Più precisamente, il punto di vista delle persone oppresse conferisce loro un vantaggio epistemico: soltanto loro possono conoscere l’estensione delle strutture di oppressione che permeano la nostra società. La tesi della superiorità dell’esperienza delle vittime suggerisce che sia impossibile sentirsi vittima del razzismo senza esserlo. Se l’esperienza diretta delle persone oppresse è investita di un’autorità superiore, il razzismo percepito viene automaticamente considerato razzismo.
Come difendere l’idea di un razzismo onnipresente, se molti studi mostrano che gli atteggiamenti razzisti sono a un livello storicamente basso? Secondo i sostenitori della politica identitaria, il razzismo non si limita agli atteggiamenti assunti consciamente dalle persone, bensì occorre ampliarne la definizione per includervi due forme di razzismo finora trascurate.
La prima è il razzismo individuale inconscio. Anche se non abbiamo l’impressione di essere razzisti, è possibile che pensiamo e agiamo sulla base di stereotipi razzisti inconsci. Quest’ipotesi si fonda su un metodo sperimentale introdotto nel 1998: il test di associazione implicita, che, ad esempio, mostra come tendiamo ad associare più rapidamente i volti di persone nere a parole con una connotazione negativa e i volti di persone bianche a parole con una connotazione positiva. Sulla base di questa conferma scientifica, l’idea dei pregiudizi inconsci si è rapidamente affermata come fattore centrale per spiegare le disparità razziali, tanto che molte istituzioni pubbliche e private, anche in Svizzera, offrono una «formazione sui pregiudizi impliciti».
La seconda forma di razzismo da includere nella definizione è la teoria del razzismo sistemico (talvolta definito anche strutturale o istituzionale). L’idea centrale, che risale a Stokely e Hamilton (1967), è che non soltanto le persone, ma anche le istituzioni, possano essere razziste. Assodato che istituzioni quali l’apartheid o la schiavitù sono razziste in quanto risultato di atteggiamenti razzisti, la novità dell’idea di razzismo sistemico risiede tuttavia nel fatto che determinate istituzioni sono razziste anche in assenza di un atteggiamento razzista, esplicito o implicito. Affinché un’istituzione sia etichettata come razzista, è sufficiente che abbia conseguenze più negative su determinate minoranze razziali che sul resto della popolazione (Shelby, 2016; Taylor, 2016). Persino se tutti smettessero di avere atteggiamenti razzisti, consci o inconsci, il razzismo sistemico potrebbe quindi ancora esistere.
Sulla base di questo doppio ampliamento della nozione di razzismo, i sostenitori della politica dell’identità affermano, innanzitutto, che il razzismo corrompe le nostre democrazie liberali malgrado una diminuzione degli atteggiamenti esplicitamente razzisti. Inoltre, ritengono che tutte le disparità razziali siano il frutto del razzismo conscio, inconscio o istituzionale. Come sostiene Kendi (2016), se si crede davvero che i gruppi razziali siano uguali, allora si crede anche che le disparità razziali debbano essere il risultato della discriminazione razziale.
L’idea che la maggior parte delle disparità razziali possano essere spiegate tramite una definizione ampliata del razzismo è tuttavia opinabile per tre ragioni.
In primo luogo, il ricorso categorico ai pregiudizi inconsci o impliciti per spiegare le disparità razziali che troviamo in alcune pubblicazioni e istituzioni di lotta contro le discriminazioni contrasta con la posizione, molto più prudente (per non dire talvolta scettica), che da una ventina d’anni la letteratura scientifica dimostra nei confronti dei test di associazione implicita utilizzati proprio per individuare la presenza di tali pregiudizi (cfr. in particolare Machery, 2022; Jussim et al. in corso di stampa). Ad oggi, non vi è consenso su che cosa misurino esattamente questi test (a parte il tempo di risposta), né sulla loro affidabilità o capacità di prevedere i comportamenti. In particolare, tre argomentazioni indeboliscono l’idea che misurino sistematicamente il razzismo implicito. La prima è che questi test spesso riflettono la nostra conoscenza degli stereotipi culturali piuttosto che la nostra approvazione degli stessi. Si può infatti capire una battuta sui belgi senza condividere lo stereotipo su cui si basa. La seconda è che questi test possono riflettere la nostra conoscenza delle disparità effettive, piuttosto che degli stereotipi. Per esempio, il fatto di associare più rapidamente i volti di persone nere a parole con una connotazione negativa può indicare che siamo a conoscenza del fatto che le condizioni di vita delle persone nere sono, in media, più difficili di quelle delle persone bianche. I due esempi non implicano un atteggiamento negativo nei confronti delle persone interessate e pertanto non rientrano nella definizione di razzismo. Queste due argomentazioni sono in parte confermate dalla terza. Infatti, se i test misurassero effettivamente una forma di razzismo implicito, ci si aspetterebbe che fossero correlati a comportamenti discriminatori. Spesso, però, non è così: un punteggio elevato in questo tipo di test non è un buon indicatore di discriminazione razziale. Di conseguenza, i pregiudizi impliciti potrebbero spiegare soltanto una parte delle disparità razziali. Non si tratta di negare il fatto che i pregiudizi impliciti talvolta possano riflettere forme di razzismo implicito, ma allo stato attuale delle ricerche, l’ipotesi secondo cui i pregiudizi impliciti sarebbero un fattore decisivo per spiegare le disparità razziali è lungi dall’essere dimostrata.
In secondo luogo, la nozione di razzismo sistemico si scontra con difficoltà di ordine concettuale. Insistendo soltanto sugli effetti delle strutture istituzionali e omettendo qualsiasi riferimento all’atteggiamento degli agenti, finisce per etichettare come razzisti fenomeni che chiaramente non lo sono. L’esempio delle politiche di «azione positiva» (dette anche di «discriminazione positiva») illustra bene questo concetto. C’è un’ampia letteratura sugli effetti negativi inattesi di questo tipo di politiche, che parrebbero essere più dannose che benefiche per le persone che dovrebbero sostenere (cfr. in particolare Sander e Taylor, 2012; Fryer e Loury, 2005; Riley, 2016). Per esempio, il fatto di facilitare l’accesso a università prestigiose a studenti neri li metterebbe in una situazione di sovraccarico (mismatch) e li renderebbe più soggetti all’abbandono. È plausibile supporre che almeno una parte degli effetti negativi descritti dalla letteratura sia reale. Ne consegue che, sulla base della definizione di razzismo sistemico, le politiche di azione positiva siano sistematicamente razziste. Una tesi assurda, dato che l’obiettivo di queste politiche, per quanto fallimentari, è di migliorare le opportunità delle minoranze razziali (politiche, del resto, spesso promosse dagli stessi sostenitori della nozione di razzismo sistemico). Ignorando gli atteggiamenti degli agenti per concentrarsi sugli effetti delle istituzioni, il razzismo sistemico perde qualunque legame con il significato originario di razzismo.
In terzo luogo, nemmeno una definizione ampliata di razzismo consente di spiegare tutte le disparità razziali. In realtà, queste derivano anche da fattori culturali, demografici o geografici che non possono essere ragionevolmente considerati come forme di discriminazione (Sowell, 2019). Pertanto, il trasferimento di capitale culturale (all’interno di una famiglia, di una comunità o di un Paese) è un fattore importante di disparità, in quanto ha un impatto diverso sulle competenze e le preferenze delle persone appartenenti a gruppi distinti. Inoltre, il fatto che la popolazione immigrata sia più giovane di quella autoctona, spesso utilizzato per spiegare la loro sovrarappresentazione nelle statistiche della criminalità, può anche spiegare il loro reddito medio inferiore. Infine, oltre a incontrare ostacoli linguistici nel Paese di accoglienza, alcune persone immigrate non hanno potuto beneficiare di una formazione specialistica nel loro Paese d’origine che avrebbe consentito loro di ambire a un impiego qualificato.
A questo punto occorre fare un’osservazione importante. Relativizzare il peso delle discriminazioni tra le cause delle disparità razziali non significa affatto accettare lo status quo. Le discriminazioni, e più in generale le ingiustizie, non sono gli unici flagelli della nostra società. Un’epidemia, un sisma, una crisi economica, proprio come alcune disparità, non sono ingiustizie, ma necessitano comunque di una risposta da parte nostra. Non tutto quello che è negativo è anche ingiusto, così come non tutte le disparità razziali sono causate dal razzismo.
«Chi vive per combattere un nemico ha interesse a non eliminarlo», scriveva Nietzsche. Per quanto cruciale, la lotta contro il razzismo non deve portare a vedere il razzismo dove non c’è e neppure a tacere i notevoli progressi in materia o a nascondere i fattori non discriminatori alla base delle disparità razziali. La politica identitaria (il wokismo) trasmette alle minoranze razziali il messaggio secondo cui sono sistematicamente discriminate. Nel presente articolo ho illustrato come questo messaggio sia sbagliato. Ma è anche deleterio, poiché impedisce di identificare le cause fondamentali delle disparità razziali e fa credere alle persone che appartengono a minoranze razziali di essere in balia delle forze ostili di un sistema che rema loro contro. Un’idea errata e scoraggiante, che le spinge a sottostimare le opportunità che il sistema può offrire loro. Non diamo prova né di lucidità né di virtù nel vedere razzismo ovunque: nell’interesse della verità e delle minoranze, accontentiamoci di scovarlo dove si annida davvero.
Le fonti e i riferimenti bibliografici sono riportati nel PDF.