TANGRAM 48

Razzismo interiorizzato e privilegio bianco: le lacune dell’analisi di Olivier Massin

Autore

Ellen Hertz è professoressa di antropologia all’Università di Neuchâtel. Ellen.Hertz@unine.ch

Vorrei ringraziare Olivier Massin per il suo contributo ponderato, documentato e rispettoso alla discussione sul razzismo e sulla sua evoluzione nel mondo contemporaneo. Non sono d’accordo con molte delle sue argomentazioni, ma prima di esaminarle vorrei unirmi a lui nel sottolineare che negli ultimi decenni sono stati fatti progressi nella lotta contro il razzismo. Va tuttavia rammentato che questi progressi sono frutto del coraggio e dell’intelligenza delle persone razzializzate stesse, non della carità o della lucidità mentale della società bianca. Anzi, molte persone bianche hanno resistito strenuamente. Per esempio sappiamo che Martin Luther King, nel corso della sua vita, stroncata da un attentato, è stato spesso additato come «estremista». Secondo me, questo fatto invita a prendere molto sul serio quello che gli attivisti dicono oggi, poiché, se la storia recente sta seguendo una traiettoria positiva, lo dobbiamo soprattutto ai loro contributi intellettuali e politici.

Il razzismo è «ai minimi storici»?

Passiamo ai fatti. Possiamo concordare con Olivier Massin quando afferma che nelle nostre democrazie liberali «il razzismo è ai minimi storici»? Se diamo retta ai media, una delle crisi principali che colpiscono le democrazie liberali dei nostri giorni è l’aumento del nazionalismo bianco e la stigmatizzazione delle minoranze razzializzate. In questo contesto, l’affermazione di Olivier Massin ha il pregio di indurci a un esame accurato dei dati. Ebbene, al momento i dati non gli danno ragione: anche se la situazione è diversa da un Paese all’altro, recentemente il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle questioni delle minoranze ha messo in guardia da uno «tsunami di odio», sui social media, contro le minoranze. Inoltre, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha registrato soltanto un «progresso frammentario» nella lotta per garantire la parità di trattamento alle persone di origine africana.

In Svizzera, la Commissione federale contro il razzismo ha registrato un aumento del 10, 12 e 23 per cento degli episodi denunciati rispettivamente nel 2021, 2022 e 2023. Queste cifre non includono i casi segnalati che sono stati giudicati chiaramente non correlati alla discriminazione razziale. Quindi non si tratta soltanto di «razzismo percepito» (una nozione che affronterò più avanti), ma di episodi giudicati razzisti da parte di esperti indipendenti.

Su che cosa si fonda il concetto di «razzismo sistemico»?

Olivier Massin afferma che il razzismo è attualmente ai minimi storici per mettere in discussione quella che lui sostiene essere la nuova ideologia della «politica dell’identità» o del «wokismo». Nello specifico, si oppone alla «definizione ampliata» di razzismo proposta dall’«ideologia wokista» che guarda oltre gli atti razzisti intenzionali o inconsci e analizza anche forme sistemiche di razzismo. Per dirla con le sue parole, il principio essenziale del wokismo è che «le nostre democrazie liberali sono costruite su relazioni di oppressione onnipresenti e nascoste».

Qui e altrove nell’articolo, l’argomentazione di Olivier Massin si basa sulla radicalizzazione o sullo stravolgimento della posizione dei suoi avversari. L’errore, qui, è confondere sistemico con sistematico. Se un autore etichetta una forma di razzismo come sistemica non sta dicendo che tutte le interazioni, le politiche e le decisioni istituzionali siano determinate dal razzismo. Inoltre, il razzismo sistemico non è «nascosto», semplicemente non è osservabile nel discorso o nelle interazioni sociali. Il concetto è stato introdotto (prima del cosiddetto «wokismo»!) per spiegare discrepanze di lunga data nei livelli di reddito, educazione e salute tra persone bianche e persone razzializzate malgrado politiche a prima vista non razziste. Per identificare il razzismo sistemico occorre utilizzare la correlazione statistica al fine di individuare le disparità razziali di queste politiche.

Un classico esempio tratto dal contesto statunitense sono i test attitudinali standardizzati che vengono impiegati per determinare l’ammissione degli studenti all’università. Dopo averli analizzati, la National Education Association è giunta alla conclusione che questi test, se elaborati secondo visioni del mondo e riferimenti culturali tipici di persone bianche, producono risultati attitudinali svantaggiosi per le minoranze razziali o etniche che non hanno familiarità o non sono a loro agio con questi modi di pensare. I test non sono stati concepiti di proposito per svantaggiare le minoranze non bianche né sono basati su opinioni inconsciamente razziste. Sono semplicemente etnocentrici e pertanto costituiscono uno strumento poco adatto a misurare il talento di giovani menti in una società in cui le politiche e i programmi non dovrebbero promuovere la visione del mondo di un gruppo specifico a discapito di altri.

Come dimostra questo esempio, il concetto di razzismo sistemico ci permette di approfondire la nostra comprensione dei meccanismi del razzismo. Tuttavia, la maggior parte degli specialisti, compresi i numerosi ricercatori «woke» citati da Olivier Massin, concorderebbero con lui quando afferma che il razzismo non «consente di spiegare tutte le disparità razziali». Nello specifico, occorre prendere in considerazione almeno altri due sistemi di classificazione potenzialmente discriminatori, ovvero quelli basati su classe e genere, ma potrebbero entrare in gioco anche altri criteri quali l’età, le abilità fisiche o l’orientamento sessuale. Come sottolinea lo stesso Massin, la teoria dell’intersezionalità è stata sviluppata appositamente per studiare le interazioni tra questi fattori. Constatare che occorre esaminare molteplici fattori per spiegare le disparità razziali non indebolisce in alcun modo la tesi secondo cui il razzismo può assumere un carattere «sistemico» per il fatto di essere intrinseco agli strumenti e alle modalità organizzative dei programmi e delle istituzioni politiche.

I limiti dell’individualismo metodologico

L’analisi di Olivier Massin ha il pregio di mettere in evidenza i vari postulati epistemologici e strumenti metodologici necessari per studiare il razzismo, rispettivamente, intenzionale, inconscio e sistemico. In breve, il primo può essere studiato analizzando i discorsi e osservando le interazioni sociali, il secondo può essere oggetto di un tentativo di misurazione tramite esperimenti o test psicologici e il terzo richiede analisi statistiche per identificare le correlazioni (ma non necessariamente le cause). L’errore di Olivier Massin consiste nel non tenere sufficientemente conto di queste differenze di livello. Come dimostrato dalla criminologa Coretta Phillips, l’applicazione del concetto di razzismo istituzionale richiede un «approccio multilivello» (micro, meso e macro), che esamina le relazioni tra interazione sociale, funzione organizzativa e norme e strutture sociali trasversali.

Questo errore apparentemente di poco conto deriva, in realtà, da una confusione molto più importante dal punto di vista delle scienze sociali: l’individualismo epistemologico-metodologico. Secondo questo paradigma, l’individuo prevale sulla società e le scelte e i giudizi formulati dai singoli possono essere studiati in maniera indipendente dal contesto sociale in cui si trovano. Sebbene vi sia oggi un consenso nelle scienze sociali sul ruolo delle scelte e dei giudizi individuali, l’ipotesi di un individualismo radicale di questo tipo è stata respinta fin dai tempi di Durkheim per la sua incapacità di spiegare le origini e il funzionamento della società stessa.

Olivier Massin sembra sostenere che il razzismo sia primariamente o esclusivamente un atteggiamento individuale o uno schema di comportamento avulso da quelle che gli scienziati sociali (sulla scia di Durkheim e Mauss) chiamano «istituzioni». La domanda da porsi è quindi la seguente: qual è l’origine di questi atteggiamenti e schemi di comportamento individuali? Se fossero semplicemente di natura personale, la gente manifesterebbe pregiudizi e atteggiamenti discriminatori in maniera aleatoria: ad alcuni darebbero fastidio le persone con le gambe corte, altri eviterebbero di stare vicino alle persone dalle orecchie grandi. Ma il pregiudizio individuale non è frutto del caso: le preferenze e le avversioni riflettono le rappresentazioni e le pratiche collettive consolidatesi nel corso della storia. Fin dalla colonizzazione euro-americana tra il XVIII e il XX secolo, il sistema fondamentale utilizzato per immaginare e rappresentare le differenze tra gruppi sociali è stato basato sulla «razza». In breve, il razzismo in quanto sistema cognitivo ed emozionale è innanzitutto un fenomeno sociale e soltanto in seguito individuale.

Il razzismo sistemico in Svizzera

Molti esempi e riferimenti di Olivier Massin provengono dagli Stati Uniti, proprio come i miei contro-esempi. Ma le disparità razziali ed etniche assumono forme diverse in Paesi diversi per via delle differenze nei legami storici con la schiavitù, il colonialismo e la migrazione. La Svizzera non ha legami diretti con la schiavitù o la colonizzazione, sebbene molte famiglie svizzere benestanti abbiano finanziato entrambe (cfr. TANGRAM 47). Le minoranze in Svizzera sono sostanzialmente il frutto di ondate d’immigrazione cominciate a metà del XX secolo. I gruppi minoritari che si stabiliscono nel Paese sono spesso razzializzati (p. es., negli anni 1950, gli italiani erano considerati etnicamente distinti dagli abitanti nativi), ma il colore della pelle è soltanto uno dei fattori alla base di stereotipi potenzialmente discriminatori: altri criteri rilevanti sono la nazionalità, la religione e una non meglio precisata «origine etnica». Di conseguenza, le forme di discriminazione inconsce e sistemiche trovano le loro radici in primo luogo nella politica migratoria stessa, che storicamente distingue tra immigrati benvenuti e non benvenuti in base a criteri correlati al colore della pelle o a quella che viene eufemisticamente chiamata «distanza culturale». Tuttavia, anche il funzionamento ordinario dell’amministrazione comunale o cantonale non è immune dalla discriminazione sistemica: per esempio, i matrimoni cosiddetti «misti» sono soggetti a un esame più approfondito per verificarne l’«autenticità» o, sul mercato del lavoro, il colore della pelle e i cognomi da cui traspare l’origine etnica sono statisticamente correlati alla probabilità relativa di essere assunti.

Il razzismo interiorizzato: una prospettiva mancante

Questo ci porta a un’altra causa di disparità razziali persistenti che l’approccio individualista di Olivier Massin gli impedisce di identificare: il razzismo interiorizzato. Basandosi sui lavori di W. E. B. Du Bois, Frantz Fanon e altri accademici razzializzati, in un articolo ormai divenuto un classico, la sociologa Karen Pyke mette in luce «l’interiorizzazione dell’oppressione razziale da parte delle persone razzialmente subordinate». Successive ricerche hanno dimostrato che il razzismo interiorizzato non soltanto intacca l’autostima e peggiora le aspettative e il rendimento delle minoranze razzializzate, ma si traduce anche in problemi di salute, violenza e depressione. Il razzismo interiorizzato è un fardello che le persone razzializzate devono portare in tutte le occasioni, a prescindere che siano o meno lo specchio di atteggiamenti razzisti espliciti. Per esempio, per chi appartiene a una categoria razzialmente subordinata, vedersi rifiutare un lavoro o un contratto di affitto non significa soltanto un’occasione mancata: significa anche doversi chiedere se il proprio status razziale non abbia giocato un ruolo. Un’esperienza dolorosa e stigmatizzante.

Alla luce di queste considerazioni, occorre riesaminare l’idea espressa da Olivier Massin che le minoranze razziali possano «fraintendere» il razzismo. Certamente, in determinate circostanze, le persone razzializzate possono equivocare le intenzioni dei loro interlocutori bianchi o mal interpretare i risultati di un’interazione con le istituzioni. Questi eventi innocui, tuttavia, non cambiano il fatto sistemico che il razzismo può manifestarsi in ogni momento – una realtà semplicemente estranea alle persone bianche. Esse, infatti, potranno magari essere svantaggiate per altri motivi, ma non devono portare il fardello del razzismo interiorizzato. Questo è soltanto uno degli aspetti che caratterizzano il privilegio bianco.

L’analisi di Olivier Massin non tiene conto di questa realtà: l’autore ritiene infatti che, lungi dall’essere la conseguenza di esperienze dolorose vissute dalle persone razzializzate, il razzismo interiorizzato sia in qualche modo il semplice prodotto della discussione stessa sul razzismo sistemico. Detto con parole sue: «La politica identitaria (il wokismo) trasmette alle minoranze razziali il messaggio secondo cui sono sistematicamente discriminate. Nel presente articolo ho illustrato come questo messaggio sia sbagliato. Ma è anche deleterio, poiché impedisce di identificare le cause fondamentali delle disparità razziali e fa credere alle persone che appartengono a minoranze razziali di essere in balia delle forze ostili di un sistema che rema loro contro. Un’idea errata e scoraggiante, che le spinge a sottostimare le opportunità che il sistema può offrire loro». Tralasciando la questione di quali siano le «cause fondamentali delle disparità razziali» cui fa riferimento Olivier Massin, posso soltanto rispondere tornando alla mia argomentazione iniziale: la stragrande maggioranza degli attivisti antirazzisti è giunta alla conclusione che, per poter combattere il razzismo, occorre partire dall’esperienza delle persone razzializzate. Ciò non significa che il razzismo sia presente ovunque e sempre. Significa che lo è potenzialmente. Ed è proprio questa potenzialità a essere discriminatoria. Significa inoltre che la visione individualistica, secondo cui la vita è una sequenza di opportunità da cogliere – a prescindere dal colore della pelle – non corrisponde alla realtà vissuta dalle minoranze razziali ed etniche nelle società euro-americane.

Conclusione

Per ragioni di spazio non posso sviluppare ulteriormente le mie obiezioni alle argomentazioni di Olivier Massin, tra le quali includerei una tendenza a radicalizzare opinioni divergenti anziché ricercare le sfumature («vi sono due scuole di pensiero radicalmente opposte sul tema del razzismo»), un’illustrazione parziale di quella da lui definita «politica dell’identità», una descrizione fuorviante degli effetti delle politiche di azione positiva negli Stati Uniti e una comprensione errata del concetto di «saperi situati» di Donna Haraway.

Tuttavia, vorrei concludere reiterando il valore del contributo di Olivier Massin. Partecipare a questo dibattito mi ha costretta a riflettere in modo più approfondito su questi temi complessi, e una riflessione approfondita sarà sempre più necessaria in periodi storici polarizzati come quello attuale. La lotta contro il razzismo ha ottenuto risultati e può continuare a ottenerne, a condizione che le persone bianche continuino a fare la loro parte. Non ho una visione deterministica o pessimistica, semplicemente riconosco che, se vogliamo essere più del prodotto del nostro contesto sociale, dobbiamo riflettere sul fatto che siamo anche il prodotto del nostro contesto sociale. Per superare il razzismo, occorre pensare non soltanto a che cosa significhi essere una persona non bianca, ma anche a che cosa significhi essere una persona bianca.

Le fonti e i riferimenti bibliografici sono riportati nel PDF.