Autore
Veronica Galster, licenziata in scienze politiche, è giornalista.
veronica.galster@areaonline.ch
Salvatore Marino è un comico italiano di origine italo-eritrea. Nasce ad Asmara (Eritrea) da madre eritrea e padre siciliano e all’età di 15 anni si trasferisce a Roma dove si diplomerà ragioniere. Dopo aver frequentato il laboratorio di Proietti comincia la sua attività artistica tra teatro e televisione.
Signor Marino, nella sua presentazione si autodefinisce «mezzo bianco e mezzo nero, con i capelli da nero e la faccia da bianco, ma più passa il tempo e più perdo melanina», una condizione questa che la fa sentire come «un nero pentito o un bianco indeciso»…
Sì, ironicamente ma neanche tanto ironicamente, nel senso che sono venuto in Italia quando avevo 15 anni e il mio colorito era decisamente più scuro. Poi da un punto di vista squisitamente naturale e biologico, non avendo più bisogno di una protezione dal sole africano, piano piano mi sono «sbiancato». In realtà io sono proprio due culture che si sono incontrate: quella di mio padre che è siciliano e quella di mia madre che è eritrea. Ho sempre avuto in seno le due culture e c’è sempre stato questo continuo conflitto positivo che trovo dia poi adito a prospettive e visioni molto ampie, che fanno fare delle scelte in maniera forse un po’ più critica.
Lei è un comico, ma che cosa la fa ridere?
Ma, io rido molto, rido parecchio, mi piace ridere. Nello specifico non lo so cosa mi faccia ridere. Mi fa ridere molto Totò, il suo stravolgimento linguistico; mi fa ridere Charlot, mi fanno ridere Stanlio e Ollio, mi fa ridere Massimo Boldi, che lavora anche lui sul linguaggio, sullo stravolgimento... io rido molto, mi fanno ridere tutti i comici italiani. Ridere fa bene.
Ridere fa bene, ma si può ridere di tutto? Anche delle minoranze?
Sì, credo di sì. Ho partecipato ad esempio alla creazione di un programma chiamato «comici integrati». Si tratta di un progetto dedicato alle scuole medie (seconda e terza media) che abbiamo presentato al Ministero per le pari opportunità, nello specifico all’Unar (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali), e con questo progetto abbiamo affrontato il tema del razzismo usando il linguaggio dell’umorismo e del divertimento.
Quindi i pregiudizi possono essere combattuti anche ridendoci su?
Sì, esatto, era lo scopo del progetto. In concreto abbiamo inviato ai ragazzi un questionario nel quale chiedevamo di scrivere pregi e difetti di tutte le etnie residenti nella loro regione, i ragazzi hanno risposto in anonimato e in base alle risposte abbiamo scritto uno spettacolo di un’ora, lavorando soprattutto sugli stereotipi e i pregiudizi. Sono venute fuori delle cose molto divertenti, una sorta di corto circuito. Per fare degli esempi: sui cinesi hanno scritto che i lati positivi sono il fatto di essere sempre sorridenti, di parlare poco e avere gli occhi a mandorla. Per i lati negativi c’è chi ha accennato agli occhi a mandorla da altri considerati positivi, chi ha scritto «fanno cose made in China». Sui filippini invece qualcuno ha scritto: «la nostra filippina è una polacca»... cose di questo tipo che abbiamo trasformato in uno spettacolo che ha fatto il giro dell’Italia: dalla Sicilia a Varese, in tutte le scuole che hanno partecipato al progetto.
Secondo lei, combattere i pregiudizi con l’umorismo è qualcosa che può fare chiunque o solo chi è vittima di questi pregiudizi?
Secondo me dette da uno che è nero come la pece o da un extra-comunitario le battute hanno ancora maggiore forza, diciamo che se le dice in prima persona qualcuno che è oggetto di scherno hanno una forza diversa. Penso però che lo possa fare chiunque, chiunque può dire le battute: sento tutti raccontare barzellette razziste.
In un filmato lei interpreta un padre che in un ipotetico futuro in cui terrestri ed extra-terrestri si frequentano, è confrontato al «problema» della figlia che esce con uno di loro. In uno scambio di opinioni con la moglie escono timori e pregiudizi verso un Altro «diverso»…
Sì, quella di quel filmato è una lettura molto forte che mi è piaciuta subito: quando il regista mi propose di fare questa cosa io la sposai immediatamente. Il senso è che in realtà siamo tutti quanti uguali: guardiamo le guerre che ci sono adesso (Ucraina, Medio Oriente, e tutte le guerre recenti), ma se dovessimo immaginare per un momento di essere invasi dagli extra-terresti ecco che diventeremmo un’unica comunità per cui ci metteremmo tutti assieme a combattere gli alieni. Ed è questo un po’ il paradosso. Dovremmo fare mente locale, ragionare, cercare di capire che poi alla fine siamo tutti uguali, gialli, neri, bianchi, verdi, di religioni diverse ... alla fine ci accomunano gli stessi problemi.
Uno dei suoi ultimi spettacoli ha come titolo «Non sono abbronzato, qui lo dico e qui lo neg(r)o», può spiegare com’è nato?
Sì, quello spettacolo nasce lo scorso anno da un lavoro di gruppo, con 5 o 6 amici autori: ognuno ha scritto un pezzo sul problema del razzismo, dell’integrazione, della diversità ed è uno spettacolo in parte comico e in parte no. Ad esempio: Massimiliano Bruno ha scritto la storia di un immigrato che arriva in Italia, però racconta tutta la storia, partendo dal grembo materno. Il suo pezzo è intitolato «giocafrica» e quindi tutto quello che racconta lo racconta come fosse un gioco: per lui la guerra è un gioco, attraversare il deserto per imbarcarsi sulle coste libiche è un gioco, quindi farsi centinaia di chilometri di deserto a piedi è un gioco, imbarcarsi su una zattera è un altro gioco, una volta arrivato a Lampedusa si deve integrare e trovare lavoro come clandestino e questo è un altro gioco ancora... È uno spettacolo che ha quindi un sapore anche amaro. Io tra l’altro lo riprendo quest’anno.
Nel suo quotidiano è davvero così importante il colore della pelle?
Ma, che dire, io viaggio: quando capito ad esempio a Londra il colore della pelle è assolutamente irrilevante, perché è una società oramai multiculturale oltre che multietnica. Gli Stati Uniti sono anch’essi una società multiculturale e quindi questo problema lì è assolutamente irrilevante oggi come oggi (senza guardare ai problemi del passato). L’Italia comincia di fatto a diventare una società multietnica, e poi spero diventerà anche una società multiculturale e quindi probabilmente fra vent’anni non noteremo più la differenza del colore della pelle e incontrare un Nero sarà assolutamente normale, così come lo sarà incontrare un giallo. Avremo tassisti cinesi, supermercati gestiti da bangladesi, dottori indiani,… Per il momento però non è così, quindi le differenze si notano. Con lo spettacolo per le scuole abbiamo però notato che dalla Toscana in su nelle scuole medie il 50 per cento degli alunni è di seconda generazione, quindi questo dà già l’idea di quella che potrà essere la stratificazione sociale nei prossimi 15 anni.