Autori
Barbara Lüthi, storica, lavora all’Istituto di ricerca sulla coesione sociale (Forschungsinstitut Gesellschaftlicher Zusammenhalt) dell’Università di Lipsia. Ha conseguito il dottorato all’Università di Basilea e l’abilitazione all’Università di Friburgo. barbara.luethi@uni-leipzig.de
Patricia Purtschert, filosofa, esperta di studi di genere e studiosa di scienze culturali, è professoressa al Centro interdisciplinare per gli studi di genere (Interdisziplinäres Zentrum für Geschlechterforschung) dell’Università di Berna di cui è anche condirettrice. patricia.purtschert@izfg.unibe.ch
Come per la pandemia di COVID-19, la guerra in Ucraina e la crisi climatica, il ruolo sociale della ricerca accademica è al centro dell’attenzione anche nei dibattiti sul conflitto tra Gaza e Israele. A questo fenomeno è correlata una polarizzazione affettiva nei mezzi di informazione, nella società e a livello politico che mette in discussione o addirittura minaccia il lavoro scientifico.
In molte aree del mondo, la ricerca scientifica è sotto pressione, come testimoniano i rapporti pubblicati regolarmente da Scholars at Risk. Questa tendenza è osservabile in misura crescente anche in Europa. Alcuni anni fa, in Ungheria, la rinomata Università dell’Europa centrale è stata costretta a trasferire la propria sede da Budapest a Vienna, in seguito a un’incessante campagna antisemita promossa contro il suo fondatore George Soros da Viktor Orbán, primo ministro ungherese di estrema destra. Quest’ultimo aveva dipinto Soros, filantropo e finanziere nato in Ungheria, quale mente di un piano teso a distruggere l’Europa tramite valori liberali e una forte immigrazione.
Il fatto inedito e preoccupante è che queste tendenze illiberali e le conseguenti restrizioni alla libertà scientifica non riguardano soltanto e soprattutto Paesi con regimi autoritari, ma interessano in misura crescente anche Stati governati democraticamente. Oggi i dibattiti sul conflitto tra Gaza e Israele sembrano spesso un’arena in cui si litiga sul ruolo sociale della ricerca e dell’insegnamento accademico. Questo fenomeno è già stato osservato negli ultimi anni con la pandemia di COVID-19, la guerra di aggressione russa contro l’Ucraina e la crisi climatica. Attorno a questi temi si è registrata una polarizzazione affettiva a livello mediatico, sociale e politico che mette in discussione e, a volte, discredita o addirittura minaccia il lavoro scientifico.
Tra ricerca scientifica e società vi sono numerosi punti di contatto, nel quadro dei quali i ricercatori rivestono diversi ruoli, producendo conoscenze di rilevanza sociale, elaborando soluzioni, fornendo indicazioni e prendendo posizione. Assumono la funzione di esperti nei procedimenti giudiziari o nei media, agiscono da consulenti politici o svolgono mandati pubblici su temi di varia natura quali le pari opportunità di genere, la cultura della memoria e le misure coercitive a scopo assistenziale; durante la pandemia hanno anche fatto parte della Swiss National COVID-19 Science Task Force. Parallelamente al sostegno pubblico alla ricerca, in tempi recenti si è registrato un aumento di cattedre e progetti di studio finanziati da privati, banche e imprese che sperano così in un valore aggiunto sociale e scientifico. Le collaborazioni tra scienza e pratica vengono dunque sostenute non soltanto dalle università, ma anche dallo Stato e dall’economia privata.
Da un lato, il dialogo tra società e scienza è quindi un dato di fatto riconosciuto e, in varie forme, istituzionalizzato, dall’altro alcune branche della scienza vengono ripetutamente attaccate perché mettono in evidenza la rilevanza sociale dei risultati dei loro studi. Soprattutto in periodi di forte conflittualità politica e crisi sociali, determinati ambiti di ricerca sono fortemente esposti e sotto pressione. Discipline quali la climatologia, gli studi postcoloniali o di genere sono infatti sovente etichettate come «ideologie» per negarne così la scientificità. Il loro minimo comune denominatore è che illustrano problemi e disparità sociali e, di conseguenza, possono offrire argomenti a favore di cambiamenti urgenti, ad esempio per quanto riguarda le disuguaglianze sociali di natura strutturale o le pratiche dannose per il clima.
Che cosa si intende allora, in questo contesto, per libertà della scienza? Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto definire brevemente i concetti di scienza e libertà. La scienza non proclama verità definitive, ma fonda le sue affermazioni sulle conoscenze disponibili, su analisi o modellizzazioni ed è soggetta anch’essa a un’evoluzione continua. Rappresenta anche una sorta di «contropubblico» quando giunge a risultati diversi da quelli auspicati dal mondo politico. Nel caso delle scienze culturali e sociali, questo può significare mettere in discussione le «narrazioni dominanti», dare visibilità a prospettive marginalizzate o tematizzare rapporti di disuguaglianza. Siccome la scienza si basa su determinati assunti e scelte metodologiche, rimane sempre un margine di dubbio. A seconda delle premesse e dei procedimenti, i risultati di studi scientifici possono contraddirsi, motivo per il quale la scienza è e sarà sempre attaccabile. In altri termini: proprio in ambito scientifico, la critica costante delle metodologie, delle teorie e dei quesiti di ricerca adottati implica un dibattito continuo sulle procedure e i risultati scientifici. Chi disconosce questo carattere controverso della ricerca scientifica e pretende invece delle verità rinnega l’essenza stessa del lavoro scientifico.
Anche la libertà presenta dimensioni diverse. Contrariamente a una sua interpretazione in chiave individualistica, ci sembra importante sottolineare che la libertà può essere pensata sempre e soltanto in relazione a e a partire dagli altri. Di conseguenza, anche la libertà scientifica del singolo è strettamente connessa a un modo di operare improntato alla dimensione collettiva e alla responsabilità sociale. Per quanto riguarda la libertà accademica, ciò significa che devono essere rispettati non soltanto le regole formali e gli standard scientifici, ma anche le regole dell’integrità scientifica e che occorre riconoscere il pluralismo metodologico e l’eterogeneità di temi e approcci all’interno delle scienze. In Svizzera, la «libertà della ricerca e dell’insegnamento scientifici» è esplicitamente riconosciuta come diritto fondamentale autonomo dall’entrata in vigore della Costituzione federale del 1999 (art. 20), anche se singoli Cantoni l’hanno integrata nelle rispettive leggi sulle università già nel XIX secolo. Un’utile direttiva in materia è costituita dalla dichiarazione dell’American Association of University Professors del 1915, poi ripresa da varie organizzazioni internazionali tra cui l’UNESCO e, recentemente, l’UE con la Dichiarazione di Bonn. In base a questa direttiva, la libertà accademica si articola in tre aspetti: la libertà di ricerca, la libertà di insegnamento e la libertà di espressione accademica, vale a dire il diritto dei docenti universitari di esprimere liberamente la propria opinione al di fuori del contesto accademico e di impegnarsi politicamente in qualità di cittadini.
In tempi di forte conflittualità politica e polarizzazione affettiva, il terzo elemento, ossia la libertà di espressione accademica, rappresenta l’aspetto più complesso. Stabilire preventivamente regole per le prese di posizione al di fuori dell’ambito universitario contrasta con il principio della libertà accademica. Spetta in primo luogo alle singole persone valutare qual è il comportamento più appropriato in un determinato contesto mediatico e sociale. Per un ricercatore è difficile fare i conti in maniera costruttiva e trasparente con il proprio doppio ruolo di ricercatore e cittadino, in quanto non si smette di essere cittadini entrando o uscendo dalle aule universitarie. La partecipazione ai dibattiti pubblici dei membri del corpo accademico è possibile e persino auspicabile: per agire e prendere posizione in maniera responsabile occorre però rispettare alcune premesse, ad esempio la distinzione trasparente tra opinioni personali e lo stato della ricerca scientifica. Evidenze scientifiche possono ad ogni modo suggerire l’adozione di misure politiche, ad esempio quando la ricerca attesta conseguenze negative per la salute di determinati prodotti o pratiche.
Un aspetto fondamentale sotto il profilo etico è che quando si esprimono sui mezzi di comunicazione in merito a un determinato tema, gli scienziati devono comunicare chiaramente al pubblico se lo fanno in qualità di esperti che hanno condotto ricerche in materia o in veste di cittadini interessati, senza particolari conoscenze e senza rivendicare alcuna autorità scientifica. Un aspetto del populismo scientifico è infatti che alcuni scienziati sfruttano il proprio status per screditare campi di ricerca in cui non sono attivi. A tale proposito, Marion Näser-Lather ha evidenziato che, nel dibattito pubblico, tra i detrattori più accaniti degli studi di genere figurano anche ricercatori senza conoscenze specifiche in materia, ai quali però, sulla base del «capitale simbolico» di cui dispongono nella propria disciplina, viene attribuita un’autorità – intesa come «capitale scientifico temporale» – anche in ambiti che non rappresentano.
All’interno degli atenei, è fondamentale impegnarsi costantemente a favore di una cultura dialettica aperta e democratica, in particolare in situazioni conflittuali. Per offrire garanzie in tal senso nel quadro dei progetti di ricerca e dell’insegnamento e assicurare la qualità, vi sono vari strumenti interni ed esterni all’ambito scientifico, come procedure di revisione tra pari, perizie, comitati consultivi e co-docenze, per citarne soltanto alcuni. Assume un ruolo particolare, in questo contesto, l’autoriflessione e l’autocritica del mondo scientifico, praticate da decenni dalla critica delle scienze femministe, decoloniali o postcoloniali, dagli studi di scienze e tecnologia, dalla teoria critica e dall’etica della scienza. Occorre inoltre avviare una riflessione permanente sulle discriminazioni e le pratiche esclusive in ambito accademico: in concreto bisogna essere disposti non soltanto a creare uno spazio libero da discriminazioni, ma anche a confrontarsi in modo autocritico con le tradizioni coloniali, sessiste, razziste, abiliste, antisemite e omofobe della scienza. Quest’apertura implica che ci si interroghi su come questi retaggi si manifestino ancora oggi e su quali cambiamenti strutturali siano necessari per rendere più democratiche e partecipative le università e le istituzioni di ricerca.
I mezzi di comunicazione sono importanti, poiché forniscono ai cittadini informazioni e una panoramica sugli eventi e possono contribuire alla formazione delle opinioni. Al tempo stesso, dettano l’agenda pubblica, sottostanno a vincoli economici e rispecchiano posizioni politiche. Si tratta di aspetti che si sono accentuati negli ultimi anni, da un lato perché i media, sottoposti a maggiori pressioni economiche, spesso seguono la logica del clickbaiting (letteralmente: «acchiappaclic») per catturare l’attenzione a breve termine del pubblico, e, dall’altro, perché il panorama mediatico si è omogeneizzato e le cerchie populiste di destra sfruttano in misura crescente i mezzi di comunicazione per diffondere le loro visioni politiche.
Le scienze sono quindi minacciate dall’economicizzazione e dalla visione di ciò che è considerato «utile» per la società. Vi è inoltre il rischio che il margine di incertezza intrinseco alla ricerca scientifica venga sfruttato dai populisti e dai (nuovi) media per semplificare situazioni e contenuti complessi o attaccare l’attività scientifica. I termini contesto e contestualizzazione, che rientrano tra i principi guida della riflessione nelle scienze culturali e sociali, sembrano ad esempio aver assunto attualmente una connotazione negativa. In riferimento a quanto sta avvenendo in Israele e a Gaza, si sostiene ad esempio che prestare attenzione al contesto equivalga a relativizzare la violenza. La contestualizzazione rimane tuttavia uno strumento necessario per ricostruire processi e decisioni, rendere visibili e ponderare prospettive diverse e impedire la mitologizzazione degli eventi.
Questa situazione non soltanto complica il lavoro dei giornalisti che continuano a svolgere inchieste approfondite, ma rende anche insicuri gli scienziati nei rapporti con i mezzi di informazione, soprattutto quando vengono affrontati temi socialmente e politicamente controversi. In un periodo in cui numerosi media favoriscono la polarizzazione e la diffamazione delle scienze mediante contenuti sensazionalistici che qualificano ad esempio determinati approcci, discipline e teorie come «ideologici» o «militanti», i ricercatori sono chiamati a «tradurre» in chiave giornalistica i risultati del loro lavoro, a contrapporre prospettive differenziate a semplificazioni e letture sommarie e a insistere sulla complessità delle analisi. Impegnarsi oggi in tal senso significa contribuire in misura importante alla difesa della libertà della scienza.
Le fonti e i riferimenti bibliografici sono riportati nel PDF.