TANGRAM 48

Un impegno tenace al servizio di una politica antirazzista in una società vieppiù polarizzata

Autor

Michele Galizia ha partecipato all’istituzione della segreteria della CFR e diretto per 20 anni il SLR. michele.galizia@bluewin.ch

Quando, nel 1995, inizia a lavorare nella lotta istituzionale al razzismo, Michele Galizia si trova di fronte a una sfida esotica: il «razzismo» era qualcosa che irritava e polarizzava. Nel suo contributo, l’autore illustra la tenacia che ci è voluta, e ancora ci vuole, per far riconoscere il razzismo come fenomeno sociale; che la ribellione delle persone direttamente interessate è comprensibile, considerata la lentezza svizzera, e che alcuni coltivano la polarizzazione per opporsi a una società più inclusiva e più giusta.

Nel 1970, l’iniziativa popolare xenofoba «contro l’inforestierimento» presentata da James Schwarzenbach viene respinta di misura, ma lascia dietro di sé una società profondamente polarizzata. Il film «I fabbricasvizzeri» del 1978 coglie in maniera tragicomica il clima xenofobo che pervadeva la società maggioritaria e le istituzioni della Svizzera di allora; nel suo recente documentario «La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri» il regista Samir ci fornisce le immagini di quell’epoca. L’idea, presente in tutti gli schieramenti politici, di due gruppi di persone contrapposti – gli svizzeri e gli stranieri – era considerata normale e non veniva praticamente messa in discussione. In questo contesto, l’iniziativa popolare «Essere solidali, per una nuova politica degli stranieri» – i cui promotori chiedono «alla politica di considerare lo straniero come un uomo con pari diritti e pari esigenze sociali alla stregua del cittadino svizzero», senza che quest’ultimo sia costretto a rinunciare alla propria identità culturale – non ha praticamente alcuna possibilità di successo e viene respinta a larga maggioranza nella votazione del 1981.

Dopo queste sconfitte, i partiti di sinistra rinunciano a progetti emancipatori visionari e si limitano a tentare di contrastare, invano, l’inasprimento della legislazione sull’immigrazione e l’asilo. I sindacati dal canto loro si aprono lentamente alle persone immigrate e per le organizzazioni della società civile ha inizio una lunga e difficile battaglia per una Svizzera più aperta.

Campagne polarizzanti

Negli anni 1980, la politica in materia di asilo ha un impatto crescente sull’atteggiamento della società nei confronti delle persone straniere e della migrazione. Da tempo la propaganda xenofoba dell’epoca pone l’accento sulla natura «forestiera» degli italiani e di altri «meridionali» nel tentativo di «razzializzarli». Tuttavia, il primo grande gruppo del «Sud globale» a essere esplicitamente emarginato per motivi razziali a causa dell’aspetto fisico è quello delle persone tamil, che si rifugiano in Svizzera dopo lo scoppio della guerra civile nello Sri Lanka nel 1983.

Le campagne diffamatorie della destra contro gli «asilanti» e la svolta populista dei partiti borghesi affermati portano acqua al mulino dell’estrema destra, sempre più attiva in questi anni. È il periodo della piccola «primavera dei fronti», durante la quale vengono pubblicamente insultate, picchiate e terrorizzate persone e viene appiccato il fuoco a croci e centri per richiedenti l’asilo. Soltanto tra il 1989 e il 1990 sono assassinate almeno sette persone, cinque delle quali tamil.

Un fatto che la dice lunga sull’influenza del sottile e ancora oggi radicato antisemitismo della società svizzera è la reazione alla rimozione, nottetempo, da parte dell’allora Partito della libertà di una scultura in ferro dell’artista Schang Hutter collocata davanti a Palazzo federale per commemorare la Shoah. Nessuna condanna unanime, unicamente un dibattito polarizzante sull’eventuale liceità di un simile gesto, visto che la scultura è stata spostata tre metri più in là della posizione autorizzata.

Allo stesso tempo, l’opposizione contro le campagne diffamatorie polarizzanti induce la società civile a organizzarsi politicamente. Hanno così luogo le prime proteste contro il razzismo. Insieme ad altre organizzazioni, la comunità di lavoro AG Mitenand («Essere solidali») indice una petizione a livello nazionale per una politica dell’asilo aperta. Il nuovo movimento per una Svizzera aperta e solidale Bewegung für eine offene und solidarische Schweiz (BODS) dichiara nel suo documento programmatico del 1986 (Charta 86) di non sentirsi minacciato da qualche migliaio di turchi e tamil, bensì da una politica che mina la democrazia e ignora i diritti umani. Tuttavia, nei servizi giornalistici pieni di fervore sulla «questione tamil», le persone tamil stesse hanno raramente l’occasione di esprimersi.

Il referendum del 1986 – fallito – contro un ulteriore inasprimento della legge sull’asilo, indetto dalla coalizione dei rifugiati di Berna Berner Flüchtlingskoalition, è il primo nella storia della democrazia svizzera a essere stato presentato da un movimento di base piuttosto che da un gruppo affermato.
Nel 2000, il movimento BODS, l’associazione Asylkoordination e altre cerchie uniscono le forze dando vita alla nuova organizzazione Solidarité sans frontières che, per la prima volta, tematizza il concetto di discriminazione per motivi razziali nel proprio statuto. L’organizzazione dichiara infatti di opporsi alla discriminazione delle persone basata sull’origine, il colore della pelle, il sesso, la visione del mondo e la situazione sociale. Il termine «razzismo» non viene menzionato esplicitamente, anche se durante l’incontro istitutivo si fa riferimento al razzismo implicito della politica svizzera degli stranieri. Perfino in questi ambienti si esita a utilizzarlo per paura di urtare determinate sensibilità. Se utilizzato, il termine è impiegato soprattutto in relazione agli aspetti psicologici e morali di singoli casi. Si parla più di pregiudizi, ostilità e discriminazione che non dell’origine di questi fenomeni e del loro radicamento nella società. Resta inoltre vieppiù sconosciuto il concetto di «razzismo strutturale».

L’adesione alla convenzione contro il razzismo

Quando, nel 1994, la Svizzera aderisce alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, l’establishment politico ritiene che il nostro Paese non sia toccato dal problema: l’associazione d’idee più frequente è con il razzismo e l’antisemitismo dei nazisti, il regime dell’apartheid oramai in declino o, tutt’al più, con una manciata di estremisti di destra reazionari.

La norma penale contro la discriminazione richiesta per l’adesione alla convenzione viene accettata dalla maggioranza dei votanti (oltre il 54 %) nella convinzione che, probabilmente, sarebbe stata applicata raramente. Non desta preoccupazione nemmeno la Commissione federale contro il razzismo (CFR) – istituita per prevenire attivamente la discriminazione razziale, un altro requisito per l’adesione – poiché la società maggioritaria ritiene che il fenomeno non la riguardi.

Il primo intervento pubblico della CFR, a un anno appena dalla sua istituzione, suscita però grande scalpore: la commissione bolla come razzista il «modello dei tre cerchi» alla base della politica degli stranieri dell’epoca. Di punto in bianco c’è chi dichiara che il razzismo è un problema sociale. Sebbene lo intenda in senso «strutturale», la CFR preferisce in seguito utilizzare il termine riferendolo maggioritariamente a una dimensione individuale, perché meno polarizzante.

L’integrazione quale sforzo unilaterale

Negli anni 2000 si afferma progressivamente una politica nazionale di integrazione con delegati in tutti i Cantoni e in molti Comuni, portata avanti inizialmente dalle Città. A livello federale, è l’allora Commissione federale degli stranieri (oggi Commissione federale della migrazione) a promuovere e sostenere finanziariamente dal 2001 progetti di integrazione. Con l’istituzionalizzazione di questo compito in seno all’Ufficio federale della migrazione (oggi Segreteria di Stato della migrazione) dal 2008 e il potenziamento degli aiuti finanziari per progetti a livello cantonale e comunale, vengono create le strutture corrispondenti in tutti i Cantoni. Esperti e organizzazioni della società civile ricevono così un sostegno finanziario e la collaborazione con le associazioni dei migranti viene istituzionalizzata. Tuttavia, per poter funzionare, questo processo di istituzionalizzazione a livello nazionale deve essere accettato da tutti, compresi gli organi cantonali a prevalenza borghese. L’accettazione passa anche attraverso un cambio di paradigma per quanto concerne la terminologia: l’integrazione viene sempre più intesa come sforzo unilaterale che le persone migranti sono chiamate a compiere. Un’accezione lontana da quella originaria, pensata in opposizione all’«assimilazione», che preconizza un processo basato sull’impegno congiunto della società di accoglienza e delle comunità immigrate.

L’affermazione di una politica di integrazione pragmatica contribuisce a sdrammatizzare la migrazione e l’integrazione agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica. Nel contempo, però, chiama sulla scena la destra, in particolare l’Unione democratica di centro (UDC) che, con le sue campagne per l’inasprimento della legislazione sull’asilo, contro procedure di naturalizzazione meno discriminatorie, contro l’estensione della libera circolazione delle persone e con le sue iniziative per l’espulsione degli stranieri e contro l’immigrazione di massa, si fa apertamente portavoce di una xenofobia sempre più razzista. Pecore e corvi neri che disturbano l’idillio bianco, mani scure che cercano di impossessarsi del passaporto svizzero, criminalizzazione generalizzata di tutti i «kosovari» quali assassini, minareti rappresentati come missili che trafiggono la bandiera svizzera: sono soggetti di manifesti dell’UDC che trovano numerosi seguaci tra i partiti e i gruppi di estrema destra di tutta Europa.

Il tabù del razzismo strutturale

Nonostante campagne sempre più razziste condotte dalla destra, riflettere sul concetto di «razzismo» rimane una sfida non da poco, anche perché i meccanismi della discriminazione razziale presente nei diversi settori non sono ancora stati individuati e ricondotti alla realtà svizzera.

Un esempio di quanto siano polarizzati all’epoca i concetti di «razzismo», «discriminazione» e persino «diritti umani» lo fornisce il cosiddetto Piano di studio 21. Nelle prime versioni, il «razzismo» figura tra i temi da trattare a scuola, in seguito è questione «unicamente» di «discriminazione» e infine genericamente di «diritti umani». Persino l’uso di questo termine fa temere di non riuscire a incontrare il favore di tutte le direzioni scolastiche cantonali. Oggi l’educazione alla politica, alla democrazia e ai diritti umani è ridotta a una componente dell’educazione allo sviluppo sostenibile. Ne consegue che la discriminazione è intesa come fenomeno interpersonale e la sua dimensione strutturale (come anche quella del razzismo) – che contribuisce a gerarchizzare e operare differenze fra le persone e, quindi, a configurare i rapporti di potere nella società – non viene tematizzata.

Anche nei progetti sostenuti all’epoca dal Servizio per la lotta al razzismo (SLR), il razzismo è affrontato soprattutto a livello individuale, sovente sotto forma di incontri, discussioni e pasti condivisi. Criticare il razzismo o denunciare comportamenti razzisti o discriminatori è difficile perché «polarizzante». Questa sorta di schizofrenia colpisce anche le persone migranti: nelle interviste, quasi nessuno parla spontaneamente di esperienze di discriminazione e razzismo, benché le storie vissute che vengono raccontate ne siano la prova.

Primi timidi passi verso una società post-migratoria

Nel nuovo millennio, irrompe sulla scena politica la seconda generazione di persone con retroterra migratorio, i cosiddetti secondos e secondas, con esigenze e rivendicazioni proprie quali l’avere voce in capitolo nella politica o il poter votare ed essere eletti. Perché, come affermano, se è vero che ciascuno ha la propria storia, è anche vero che il Paese in cui vivono appartiene a tutti – e quindi anche a loro – e, soprattutto, che sono qui per restare. Le rivendicazioni, tuttavia, restano perlopiù lettera morta nel sistema politico consolidato. Sebbene siano presenti nelle liste dei partiti di sinistra e, con argomentazioni assimilazioniste, anche in quelle di destra, raramente i secondos e le secondas vengono eletti, anzi sovente sono addirittura stralciati dalle liste.

La diversità diventa sempre più popolare nella cultura, nello sport e nella pubblicità, anche se in quest’ultimo settore bisognerebbe parlare piuttosto di tokenismo. Benché quasi nessuna pubblicità rinunci oggi a modelle e modelli neri e dai tratti asiatici, le aziende reclamizzate brillano raramente per una politica della diversità applicata alle loro strutture e alla produzione e distribuzione dei loro prodotti.

I rapporti pubblicati dal 2008 dalla Rete svizzera di consulenza per le vittime del razzismo contribuiscono a fornire prove attendibili del razzismo in Svizzera sulla base di singoli casi segnalati. Su questi dati si fonda anche il SLR per il suo monitoraggio pubblicato a cadenza regolare, in cui integra e analizza inoltre i risultati delle indagini rappresentative dell’Ufficio federale di statistica, fornendo così periodicamente un quadro completo della discriminazione e del razzismo quale problema per la società nel suo complesso.

La politica, tuttavia, rifugge ancora in larga misura dall’affrontare il razzismo in quanto problema: gli abusi di potere della polizia, ad esempio, non vengono indagati da organi indipendenti; il razzismo quotidiano rimane una realtà per le persone che ne sono vittima; il razzismo strutturale e la discriminazione sul mercato dell’alloggio, a scuola, nella ricerca di un lavoro e anche nel sistema sanitario e giudiziario continuano a essere all’ordine del giorno.

La nascita di un movimento di ampia portata

Per le persone con retroterra migratorio della generazione più giovane, questa realtà è in contraddizione con la logica dominante dell’assimilazione e spiega perché la domanda «Da dove vieni?» abbia per loro un tono così offensivo: in che cosa hanno sbagliato se, malgrado i loro sforzi e quelli dei loro genitori, questa domanda continua a essere posta; o meglio: che cosa sta andando storto? La conclusione è chiara: devono accettare di essere sempre ancora «diversi» e continuare a promuovere e rivendicare una società post-migratoria inclusiva.

«Essere diversi» non è tuttavia una categoria chiaramente definita e con una propria forza d’urto. Questa consapevolezza deve essere vissuta in modo specifico e attuata sul piano politico. Ecco perché si levano nuove voci a difesa di posizioni diverse. Il movimento diventa più variopinto, più roboante, più visibile e, appunto, anche più specifico: donne nere, vittime di collocamenti coatti, persone trans migranti, personale domestico schiavizzato...

Il libro sulla Svizzera postcoloniale «Postkoloniale Schweiz», edito da Purtschert et al. nel 2012, segna una svolta. Le donne nere si organizzano e dal 2016 si presentano in pubblico come rete Bla*Sh, la piattaforma Afrolitt promuove la letteratura nera, il progetto d’arte politico «Die Ganze Welt in Zürich» («Tutto il mondo a Zurigo», 2015) rivendica una cittadinanza urbana: libertà di soggiorno, libertà dalla discriminazione e libertà di partecipazione alla vita collettiva – una rivendicazione che alcune città soddisfano con l’introduzione della «City Card». Il movimento diventa anche più sfaccettato, più giocoso, più divertente: festival umoristico critico sul razzismo, late-night show postmigratori. Il Salon Bastarde si autodefinisce come «intervento politico-culturale per diventare di casa in una Svizzera di esclusione e razzismo quotidiano e offrire a tutte le persone con retroterra migratorio e/o di colore, come pure alle parti interessate e agli alleati (uno) spazio per la critica, il divertimento e l’utopia!».
Dal 2009, il Collectif Afrosuisse si batte per il perseguimento legale dei casi di razzismo. L’Alleanza contro la profilazione razziale, fondata nel 2016, incoraggia le persone a confrontarsi con il razzismo e a prendere iniziative proprie e monitora i procedimenti giudiziari. In seguito a una procedura portata dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, un caso di profilazione razziale in Svizzera è stato per la prima volta sanzionato da un tribunale.

L’associazione Berner Rassismus Stammtisch o l’Istituto Nuova Svizzera promuovono un ampio dibattito sostenuto da voci migranti «per uscire da uno schema di pensiero dicotomico noi-voi ed elaborare visioni sociopolitiche comuni». Libri e film di giovani persone nere riscuotono sempre più interesse e tornano in auge il decano della letteratura afroamericana James Baldwin, ma anche Vincent O. Carter. I teatri si affrettano a recuperare ciò che hanno omesso di fare negli ultimi decenni inserendo nella loro programmazione opere antirazziste. La riflessione critica sul coinvolgimento della Svizzera nel colonialismo non è più soltanto un tema di ricerca, ma ha ripercussioni anche sul volto delle nostre città (monumenti, nomi di vie ed edifici) e persino sull’offerta turistica (visite guidate).

Un nuovo inizio con il movimento Black Lives Matter

In seguito all’assassinio di George Floyd nel 2020, il movimento Black Lives Matter (BLM) si diffonde in tutto il mondo trovando da subito un ampio sostegno in Svizzera. Nonostante il coronavirus, migliaia di persone si riversano nelle piazze per denunciare la discriminazione razziale. Le proteste non sono rivolte soltanto contro il razzismo delle forze dell’ordine, ma contro l’intera gamma di comportamenti discriminatori in Svizzera. Non da ultimo, la pandemia stessa mette in evidenza le disparità presenti nella nostra società.

Il movimento BLM fa breccia in numerose persone nere in Svizzera, che non erano mai state attive in precedenza, e le incoraggia a non accettare più passivamente il razzismo quotidiano, ma a denunciarlo pubblicamente. Dai discorsi che pronunciano si capisce che molte persone giovani nere osano per la prima volta rivolgersi a un pubblico «bianco». Il sollievo di essere finalmente «visibili» è palpabile, il coraggio e la rabbia che questa nuova consapevolezza scatena sono manifesti.

Questa evoluzione tuttavia spaventa soltanto chi, in precedenza, ha evitato di affrontare il problema. Le parole e le rivendicazioni forti, che spesso tendono anche ad assumere toni di esclusione, valgono però al movimento anche non poche critiche. A questo proposito è opportuno citare tre punti: l’allineamento al discorso statunitense, il wokismo e le derive identitarie.

In una prima fase, sono spesso ripresi gli slogan del discorso statunitense senza praticamente alcun adattamento alla realtà svizzera. Le strutture di discriminazione statunitensi, che affondano le loro radici nella schiavitù, non possono però essere direttamente trasposte al contesto svizzero, dove il razzismo ha più che altro a che vedere con la xenofobia di fondo della società elvetica, che da oltre 100 anni vive nell’assurda convinzione di essere «invasa dagli stranieri». Inoltre, a differenza degli Stati Uniti, i pregiudizi «incrostatisi» in Svizzera sono piuttosto prosaici; i comportamenti di esclusione sono raramente palesi e aggressivi, ma piuttosto inconsci e nascosti.

Il wokismo, inizialmente inteso come la consapevolezza della propria posizione nella società per impegnarsi in favore di un mondo migliore e più giusto, viene assimilato alla cultura della cancellazione e al politicamente corretto, e visto come la fine della libertà d’opinione. Una libertà d’opinione che non è però mai stata uguale per tutti e che proprio per questo viene difesa con ancora più fervore. Le rivendicazioni woke vengono equiparate alle ideologie totalitarie e alla neolingua di George Orwell.

Le discussioni sulla scrittura inclusiva, sull’etichettatura degli spazi pubblici, sulla sostituzione di denominazioni ereditate dal passato possono essere davvero estenuanti. Ma la costante indignazione per questi eccessi deve anche essere vista come una strategia per non affrontare i veri problemi. A chi si limita a prendersene gioco e sminuirne le intenzioni e le preoccupazioni soggiacenti occorre ribattere che: «Se qualcosa diventa aggressivamente di tendenza e le minoranze vengono additate come un pericolo, allora è chiaro: non dobbiamo ridere con i detrattori del wokismo, ma tenergli testa» (intervista allo psicoanalista Peter Schneider pubblicata l’8 agosto 2024 sulla WOZ).

L’identità collettiva è una risorsa silenziosa fintanto che non viene politicizzata. La sua dinamica emancipatoria si fonda sul suo fervore militante, anche nelle controversie relativamente innocue condotte in Svizzera. La lotta ha un carattere necessariamente specifico; soltanto rendendo visibili le differenze, le diverse identità e i mondi in cui nascono, possono emergere nuove prospettive e rivendicazioni politiche. Tuttavia, le rivendicazioni identitarie di esclusività e di unicità possono risultare stucchevoli e incomodanti: ad esempio quando si litiga su chi può parlare a nome di chi, chi può rappresentare chi o chi può calarsi nei panni di chi in un film o alla televisione.

Tuttavia, guardare la storia e le condizioni sociali da prospettive e identità diverse è illuminante e liberatorio, non soltanto per i membri delle minoranze interessate, ma anche per quelli della società maggioritaria, che in questo modo prendono coscienza del dominio finora inconsapevole delle norme «bianche». Naturalmente, questo processo non è scevro da conflitti e può fare il gioco della destra, che usa queste rivendicazioni a fini meramente polemici e contro chi le avanza per indignare la società maggioritaria. L’eccessiva focalizzazione dei media su questi «battibecchi», ma soprattutto l’«effetto miccia» dei social media non fanno che rafforzare gli atteggiamenti aggressivi di difesa e le controreazioni violente.

Il perdurare degli effetti del movimento BLM

Il movimento BLM non è stato che un inizio: il potenziale di mobilitazione per una società sicura di sé e pluralista perdura. Negli ultimi anni, gli attivisti hanno acquisito molte conoscenze e condiviso le loro idee al di là delle differenze: i giovani impegnati nella lotta per il clima si interessano delle analisi postcoloniali, i collettivi antirazzisti si preoccupano della discriminazione delle persone con disabilità. Invece di dilaniarsi su questioni di lana caprina e di coltivare il proprio orticello, si parla in modo diverso di solidarietà, si stringono nuove alleanze e si convoglia l’energia in canali costruttivi.

Far confluire diverse prospettive identitarie in una visione umanistica e olistica rappresenta una premessa essenziale per una società post-migratoria. Una comprensione umanistica basata sui diritti umani richiede un’interazione empatica tra tutti i membri della società. Andare gli uni verso gli altri e lottare insieme per una società più umana e non discriminante può essere un processo doloroso, soprattutto se le contraddizioni e le differenze sono particolarmente evidenti. Un prerequisito è pertanto quello di riconoscere il dolore e i traumi degli altri. Prendere posizione in modo unilaterale, senza un esame differenziato e approfondito dei contesti storici e sociali, tanto più se gli eventi sono lontani dalla propria realtà, non fa che contribuire ad alimentare dispute aspre e inconciliabili.

L’integrazione riesce meglio se ci si confronta. Solidarietà non significa soltanto stringere coalizioni strategiche con «alleati», ma soprattutto cambiare sé stessi e la società in una lotta comune, impegnarsi in un processo aperto di trasformazione in grado di trascendere le polarizzazioni – con gioia di vivere e senso dell’umorismo. Questo processo è possibile soltanto se si prendono più sul serio gli argomenti forti, rispetto a quelli deboli, della controparte. La conseguenza faticosa di questo approccio è, tuttavia, che produce innanzitutto maggiori contraddizioni che non possono essere risolte in modo elegantemente ideologico e certamente non in modo elegante in termini di politica del potere, ma devono essere accettate.

La polarizzazione come strategia della destra

Le incessanti lamentele sulla «polarizzazione» della politica svizzera suggeriscono che ci sono due poli equivalenti e inducono le persone a credere di doversi per forza schierare da una parte o dall’altra. È una tendenza pericolosa, perché il cosiddetto «centro politico» è oggi scivolato pericolosamente a destra: i partiti di centro riprendono senza battere ciglio gli argomenti xenofobi della destra e mettono in discussione i diritti umani. A titolo di esempio si può citare il modo in cui tutti i principali media hanno riportato i risultati di un sondaggio sulla polarizzazione condotto nel 2023: «Di sinistra, urbani, istruiti… e intolleranti» o «Lo studio rivela che le persone di sinistra sono più intolleranti e di mentalità più ristretta di quelle di destra». Hanno però omesso di precisare che l’intolleranza è riferita anche in relazione a gruppi e posizioni che mettono in discussione l’ordine democratico dello Stato di diritto, vale a dire contro argomenti antidemocratici che non rispettano i diritti fondamentali e i diritti umani e che mettono in discussione la separazione dei poteri. Dal punto di vista della difesa dello Stato di diritto, i due poli non sono affatto equivalenti e «intolleranza» non significa la stessa cosa per le due parti.

No, la nostra società non è scevra da conflitti e dal razzismo e una società post-migratoria è (ancora) un’utopia. Questa affermazione è in contraddizione con l’immagine che la Svizzera ha di sé, ossia di un Paese in cui ci si ritrova volentieri a bere una birra dopo essersi scontrati in Parlamento.

Fin dall’inizio, la destra ha lottato contro la condanna del razzismo invocando la «libertà d’opinione» e coltivato la polarizzazione come strategia politica per non parlare di conflitti sociali, per difendere e legittimare privilegi e rivendicazioni identitarie esclusive ed escludenti e per opporsi alla necessità di contribuire a una società post-migratoria.

La polarizzazione coltivata dalla destra ha impedito persino a organizzazioni progressiste di criticare apertamente strutture sociali che sostengono e promuovono il razzismo. Soltanto il movimento delle persone direttamente interessate, pre- e post-BLM, è riuscito a incrinare l’atteggiamento profondamente radicato nella società svizzera di rigetto per questo tema – e pensare che adesso viene tacciato di fare opera di «polarizzazione»! Quest’accusa è ancora più pericolosa delle precedenti controversie politiche, perché la polarizzazione coltivata con grande acribia dalla destra ha messo radici profonde e viene attizzata in modo minaccioso dai social media e dai media affermati che lottano disperatamente per accaparrarsi l’attenzione.

Che cosa fare? Le parole del vecchio maestro Antonio Gramsci rimangono (purtroppo) di attualità: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza.»

L’autore tiene a ringraziare le persone che hanno contribuito alla redazione del presente contributo: Monique Eckmann, Claudia Kaufmann, Rohit Jain, Tarek Naguib, Alex Sutter.