Autore
Raffaella Brignoni, studi in scienze politiche, è giornalista. raffaella.
brignoni@areaonline.ch
Viaggio, attraverso le voci di due giovani ticinesi, all’interno del fenomeno tra pregiudizi e stereotipi. Lo studente universitario: «Si cerca di non valutare le persone in base alla razza o alla religione, ma la politica a volte influenza negativamente il giudizio».
«Sono stato educato al rispetto degli altri, a non giudicare in base alla nazionalità o alla religione. Mi sono sempre imposto di rispettare questi insegnamenti ricevuti in famiglia, ma devo dire la verità: a volte mi è successo di pensare che molti stranieri, non avendo voglia di lavorare, se ne approfittassero della politica di accoglienza della Svizzera e delle nostre assicurazioni sociali. A parole dimostravo apertura, seguendo il modello insegnatomi in casa, ma in realtà spesso mi ritrovavo a ragionare per stereotipi e pregiudizi. Perché? Credo che un certo modo di fare politica in maniera demagogica influenzi in maniera strisciante l’atteggiamento verso le minoranze, fomentando la divisione della società e non aiutando a costruire una convivenza pacifica.»
Ad accettare di parlare con Tangram è Nicola. Il giovane ha 21 anni, vive a Lugano e studia scienze della mediazione interlinguistica e interculturale all’Università degli studi dell’Insubria a Como. Per andare in facoltà attraversa ogni giorno materialmente la frontiera che divide la Svizzera dall’Italia, è una sorta di frontaliere alla rovescia, ma prima ha dovuto superare i suoi confini culturali: «A parole ci possiamo dichiarare non razzisti, ma quando accadono avvenimenti negativi, che hanno per protagoniste persone di altre culture, l’associazione con la cittadinanza o la religione spesso si trasforma nella prima superficiale risposta. Penso che il razzismo nasca proprio dalla mancanza di conoscenza dell’altro. Proprio per comprendere meglio il mondo, al di là degli steccati, ho fatto questa scelta di studio alla quale però non sarei mai arrivato, se non avessi prima compiuto un’esperienza molto intensa che mi ha messo in contatto con cittadini di tutto il mondo», continua il ragazzo. Nicola, nel corso dell’ultimo anno di liceo, ha svolto uno stage professionale come volontario a Casa Astra a Ligornetto, l’unico centro di prima accoglienza del Canton Ticino. Una struttura che accoglie chi, per diversi motivi, si ritrova senza un posto dove dormire, senza un lavoro che gli permetta di essere autonomo.
«Confrontandomi da vicino con altre realtà ho avuto una lezione di vita e ho scoperto come siano infondati e pericolosi i pregiudizi. Ho conosciuto persone di religione musulmana sempre col sorriso sulle labbra nonostante le difficoltà delle loro esistenze e uomini dell’Europa dell’est alla ricerca disperata di lavoro, con la voglia di sudare per mantenersi e riscattarsi. Altri islamici meno simpatici e alcuni rumeni di cui ho diffidato, ma lo stesso discorso potrei farlo per i residenti e gli svizzeri: non tutti ci piacciono, non tutti meritano la nostra fiducia. Ho così imparato a non fermarmi all’apparenza, a non nascondermi dietro alle frasi fatte, ma a valutare le persone per le loro azioni e non per altre ragioni», annota lo studente universitario. Per Nicola la convivenza pacifica può dunque essere resa possibile unicamente attraverso la reciproca conoscenza. Non la vede allo stesso modo suo cugino: Michele, 25 anni, ha studiato a Ginevra scienze economiche e sociali e attualmente lavora come consulente finanziario in una grossa fiduciaria. Sul tema di come combattere il razzismo hanno proprio approcci diversi.
Se per Nicola una buona idea potrebbe essere ad esempio l’insegnamento di storia delle religioni alle scuole dell’obbligo, Michele la pensa in maniera diametralmente opposta: «Non sono d’accordo. La scuola deve insegnare il catechismo, il nostro è un cantone cattolico e se non conosciamo neppure la nostra religione come possiamo capire quella degli altri?». Michele è netto nel suo modo di intendere la convivenza: «Chi viene in Svizzera deve rispettare i nostri usi e costumi, altrimenti non potrà mai integrarsi. Non vedo perché lo sforzo di adattamento lo debbano fare i residenti. Vogliamo fare un passo indietro e trattare anche noi le donne come nel Medioevo?», aggiunge riferendosi all’Islam. «E chi commette un reato deve essere espulso dalla Svizzera. Non sono razzista, ma abbiamo troppi stranieri che ci creano problemi, per cui aspetto che il Consiglio federale adotti le misure di contingentamento così come decise dal popolo con votazione democratica del 9 febbraio del 2014.»
Ma che cos’è davvero l’Islam? Chi sono i musulmani? E gli ebrei? E gli africani? E quelli dell’Europa dell’est? Chi è lo straniero? Colui che ci ruba il lavoro? Chi sfruttiamo o chi ha il diritto di migrare?
Dalla discussione con i due giovani emerge una spaccatura sul modo di intendere la convivenza con gli stranieri e il conseguente modello di quella che i nostri intervistati ritengono il modello di una società giusta ed equa rispetto ai diritti degli svizzeri e degli «ospiti».
Il nostro, avendo come campione unicamente due voci, non può essere considerato un sondaggio scientifico. È un lavoro giornalistico che ha come oggetto la percezione del razzismo nei giovani. È comunque interessante confrontare le risposte che abbiamo ottenuto con lo studio commissionato dal Servizio per la lotta al razzismo presentato lo scorso mese di febbraio, «Convivenza in Svizzera 2010 – 2014», che è il primo tassello di un monitoraggio che sarà svolto a cadenza biennale, a partire dal 2016, dall’Ufficio federale di statistica. Dalla ricerca affiorano timori, preoccupazioni e immagini stereotipate come quelle che sono uscite parlando con Nicola e Michele. Timori verso gli stranieri in generale – sottolinea la ricerca – che sono determinati non solo da fattori e convinzioni individuali, ma anche da discorsi e dibattiti pubblici come quello acceso sulla politica degli stranieri. Timori che possono trasformarsi nell’adozione di comportamenti razzisti o in fenomeni di intolleranza.
I ricercatori sono partiti dal presupposto che le persone non vanno classificate secondo stereotipi, si deve prevenire la discriminazione, le culture hanno tutte lo stesso valore, non si possono suddividere le persone in razze. Che cosa è uscito dal sondaggio sviluppato con metodi scientifici? Sono emerse opinioni sistematicamente negative o dettate da pregiudizi sugli ebrei (11 % dei partecipanti allo studio) e sui musulmani (19 %). Gli atteggiamenti antisemiti si sono registrati in particolare in Ticino, fra chi vive in campagna, e fra i cittadini per i quali l’appartenenza nazionale è importante. Da rimarcare – e non sorprende visto il clima esasperato soprattutto nei cantoni di frontiera – l’esplosione di atteggiamenti xenofobi sul posto di lavoro: nel 2014 la quota si attestava al 12 per cento (4 punti percentuali oltre il margine di errore). Per il 27 per cento degli intervistati la nazionalità delle persone con cui si lavora è importante. Non solo, esiste una graduatoria di desiderata. In ufficio o in cantiere con tutti? Quasi tutti, tranne albanesi, arabi, turchi, africani e russi. E il fenomeno di questo tipo di xenofobia, strettamente legata a motivi economici, è quello che alimenta maggiormente atteggiamenti razzisti. Dove per razzismo prendiamo la definizione data dai ricercatori per i quali con tale parola «si intende la percezione lesiva della dignità individuale fondata su caratteristiche biologiche o culturali attribuite in maniera stereotipa a singoli individui o gruppi per disprezzarli, umiliarli o distruggerli».
Indicazioni, quelle che affiorano, che portano i ricercatori a presupporre che la Svizzera manterrà probabilmente il blocco sulla politica dell’integrazione e degli stranieri e si sarà, conseguentemente, confrontati con episodi di discriminazione e violenza. Non c’è di che stupirsi, la demagogia in politica ha un gran fiuto nel percepire il senso d’incertezza dei cittadini ai quali, in cambio del loro voto, amplifica le paure offrendo la promessa di soluzioni a problemi spesso infondati. Così le reali distorsioni del mercato del lavoro, del sistema sanitario, dei trasporti e il malaffare continuano a prosperare indisturbati. C’è un rischio in più, e la sua potenza può essere devastante, se nelle società si introduce e si rafforza la questione razziale. Ce lo insegna la storia da secoli e secoli.
Una sensazione di minaccia e di fastidio per lo straniero dettata in parte dalle «trasformazioni portate dalla globalizzazione che cambia il mondo del lavoro e della vita privata, ma che non vengono accettate acriticamente». Le espressioni razzistiche sono dunque «motivate» (volutamente tra virgolette) e misurate in funzione «della sensazione di essere estraneo e disturbato nella propria società».
L’indice della xenofobia sembra stabilizzarsi su un gruppo critico di circa un quarto degli intervistati. Qui le differenze tra intervistati sono nette: se il 30 per cento degli svizzeri è toccato dal fenomeno, tra gli stranieri residenti questa quota scende al 5 per cento. Il tutto in uno scenario non sempre di totale consapevolezza. La conferma arriva dal fatto che la maggioranza (56 %) degli intervistati considera il razzismo un problema sociale serio. È un problema perché «io non sono razzista però i terroni non hanno voglia di lavorare, gli slavi sono violenti e sono bravissimi a farsi dare l’invalidità e gli arabi, dai, sono incivili: con il burqa che fanno indossare alle donne e poi quello che stanno facendo quelli dell’ISIS... Noi non siamo così».
Fa bene la Svizzera a monitorare il fenomeno se servirà a migliorare le politiche di mediazione.
L’11 febbraio 2015 il Consiglio federale ha deciso di introdurre un monitoraggio della convivenza in Svizzera che sarà svolto ogni due anni dall’Ufficio federale di statistica nel quadro del censimento della popolazione. La rilevazione sistematica degli atti di discriminazione e degli atteggiamenti razzisti è ritenuta necessaria dal Governo e risponde agli standard internazionali.
Con la prima fase pilota – «Convivenza in Svizzera 2010 – 2014» – si è creato uno strumento in grado di raccogliere regolarmente, a completamento dei dati disponibili, informazioni significative sugli atteggiamenti della popolazione, sulle cause delle azioni e delle idee che li caratterizzano e sull’efficacia delle contromisure attuate. Il progetto pilota è stato accompagnato da un gruppo di lavoro composto da rappresentanti di organi di cinque dipartimenti e di due commissioni extraparlamentari: la Commissione federale della migrazione e la Commissione federale contro il razzismo.
L’obiettivo è migliorare l’attività di mediazione. In proposito, la maggioranza degli interpellati (dato 2014) ritiene che la Svizzera faccia abbastanza per l’integrazione degli stranieri. Minoritaria la posizione di chi giudica l’operato eccessivo (19 %) e chi insufficiente (22 %).
«Wir? Wir sind nicht rassistisch, aber …»
(versione corta)
« Nous ? Nous ne sommes pas racistes, mais ... »
(versione corta)