Autori
Sandro Cattacin è direttore dell’Istituto di ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra.
sandro.cattacin@unige.ch
Fiorenza Gamba è collaboratrice dell’Istituto di ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra e professoressa di sociologia dei processi culturali all’Università di Sassari.
fiorenza.gamba@unige.ch
Lo Stato incontra molte difficoltà a combattere direttamente l’intolleranza, il razzismo o la xenofobia. Partendo da questa semplice osservazione si può dedurre che le istituzioni statali si rendono spesso protagoniste di atti discriminatori e che i politici, uomini e donne, governano in questo ed in altri Paesi mettendo in atto regolarmente propositi d’intolleranza. Per esempio una parte importante degli atti di razzismo segnalati in Svizzera si consumano nelle scuole e nelle amministrazioni pubbliche come risulta da una recente indagine dell’associazione humanrights.ch.
Questi molteplici segnali mostrano come lo Stato e le sue istituzioni non siano altro che lo specchio della società. Anzi, non lo specchio, bensì un’istantanea, perché, contrariamente alla società, che si trasforma rapidamente, lo Stato e i suoi apparati non sono un insieme dinamico, capace di adattarsi sincronicamente ai cambiamenti, ma al contrario cristallizzano le realtà interpretative ed etiche di un determinato momento storico in leggi e procedure con poco margine di manovra.
Un caso speciale è costituito dall’introduzione nella nuova Costituzione svizzera di un articolo contro le discriminazioni di ogni tipo (l’articolo 8) e nel Codice penale (CP) di una disposizione contro il razzismo. Entrambe le disposizioni sono state inserite grazie al recepimento da parte della Svizzera di diversi strumenti internazionali aventi come fine la salvaguardia della popolazione contro atti discriminatori o razzisti (in particolare con l’adesione alle Nazioni Unite e la firma della Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale). Nessun voto specifico legittima in questo senso l’articolo costituzionale, mentre l’articolo del CP ha dovuto superare il vaglio del voto popolare dopo l’approvazione del referendum proposto dai Democratici Svizzeri – un partito di destra xenofobo – i cui intenti andavano in direzione totalmente opposta al risultato poi ottenuto; nel voto infatti, la maggioranza si è espressa a favore del nuovo articolo (con il 54,6 % di sì, il 25 settembre del 1994). Mentre l’articolo costituzionale non ha ancora una base legale stringente (e di fatto non esiste una procedura generale per la sua applicazione, ma solo applicazioni in contesti ben precisi, disciplinati da leggi specifiche (Hausammann 2008), la disposizione penale contro il razzismo, applicata di rado, è regolarmente criticata e oggetto di una forte opposizione, in particolare dei partiti di destra, che ne chiedono l’abolizione.
Tali esempi di debolezza e incertezza non implicano che lo Stato e le sue istituzioni non sostengano strumenti più incisivi – pensiamo che ci sia ancora un ampio margine di manovra nel campo delle leggi contro le discriminazioni (Kälin e Locher 2015) –, ma che probabilmente, nella popolazione, l’ostilità alla lotta contro le discriminazioni e il razzismo sia rilevante e che questo blocchi lo sviluppo di una politica energica contro l’intolleranza e la discriminazione (Boulila 2018). Questa tensione tra l’intenzione del legislatore e il sentire della popolazione mostra alcuni aspetti problematici: la focalizzazione precisa sugli atti, su convinzioni espresse o inespresse e sulle intolleranze in generale è un problema, perché giudicata inaccettabile da una parte importante della popolazione. Ciò ci induce a pensare che in un contesto di forte legittimazione delle discriminazioni, concentrarsi direttamente su queste problematiche può creare tensioni, rivelarsi inefficace o addirittura controproducente, come mostrano alcune valutazioni di campagne contro il razzismo che rischiano non solo di rinforzare il razzismo come reazione all’anti-razzismo, ma anche di stigmatizzare involontariamente tutti i non-Altri (i non neri, i non ebrei e cosi via) che si ribellano contro lo stigma dell’odio dell’altro, rendendo nullo l’effetto delle campagne (Ruhrmann et al. 1996). In analogia si potrebbe trattare anche delle politiche d’integrazione sempre meno accettate da chi è identificato come persona da «integrare», ma anche da chi si sente sfavorito e dimenticato in quanto autoctono in difficoltà (Cattacin 2010).
Se la politica contro le intolleranze, le discriminazioni o il razzismo è poco efficace e può anche essere controproducente quando prende di mira troppo da vicino la persona o le pratiche identificate come problematiche, non significa che lo Stato e le sue istituzioni non abbiano margini di azione, ma che debbano identificare i motivi di queste dinamiche e tentare di focalizzarsi su questi retroscena, per cambiare le dinamiche della società ed intervenire nei luoghi dove si producono atteggiamenti d’odio. Tre ambiti d’intervento sono particolarmente importanti per spiegare frustrazioni generatrici di intolleranza:
La qualità di vita nelle periferie. Gli atti di intolleranza, di radicalizzazione disumana e di violenza si sono concentrati, negli ultimi decenni, nelle periferie. Questo si spiega con la mancanza di servizi e di qualità sociale (l’anonimato dei quartieri dormitori) in paragone ai centri, ma anche con l’immagine proiettata di luoghi poco attrattivi.
La formazione. Finché c’era crescita economica, l’ascesa sociale era garantita, anche dall’arrivo di manodopera estera. La famosa «Unterschichtung», che descrive il processo di ascesa sociale, nel dopoguerra, degli autoctoni grazie alla ripresa dei lavori più umili da parte di chi immigrava (Hoffmann-Nowotny 1970). Da quando l’ascesa sociale richiede non solo mobilità, ma anche competenze specifiche, un apprendistato non è più sufficiente, ma è necessaria almeno una formazione specialistica e professionale universitaria per garantirsi un inserimento professionale di qualità. La reazione a questa condizione è spesso un voto di protesta e anti-straniero.
La mancanza di proposte d’appartenenza inclusive. Lo Stato sociale si è trasformato da creatore e stabilizzatore della ricchezza del ceto medio in agente che garantisce la sopravvivenza di chi si trova in situazioni di precarietà. Questa politica liberale e sociale, pur essendo necessaria, ha creato un sentimento d'abbandono in chi si sentiva il fulcro del benessere e dunque un soggetto da privilegiare. Tuttavia, non è soltanto la precarietà ad essere al centro della spesa pubblica, poiché anche chi si trova in situazioni privilegiate è oggetto della stessa attenzione. Per i benestanti si è scatenata, in Svizzera ma anche a livello mondiale, una lotta che si gioca soprattutto in termini fiscali. Il liberalismo che aiuta i poveri, infatti, è anche un liberalismo che favorisce i ricchi con condoni e vantaggi fiscali. Tra questi opposti, chi si sente tradito è questo ceto medio che diventa sensibile a tutti i richiami anti-elitisti e nazionalisti, e agli appelli lanciati da chi è contro misure ad hoc per categorie specifiche, favorite o precarie che siano (Goodin e Le Grand 2018 [1987]).
In questo contesto, combattere in maniera esclusivamente diretta ed oppositiva l’intolleranza, la xenofobia e il razzismo non è credibile. Ma ridurne i motivi che li fanno crescere, con politiche condivise, è invece possibile. Per essere efficaci, queste politiche devono promuovere il benessere investendo nella qualità della vita nelle periferie, devono insistere su una formazione di qualità accessibile a tutti e mantenere un equilibrio nelle politiche sociali che non svantaggino quel ceto medio che si sente vittima del liberalismo politico e orienta le politiche sociali.
La politica di integrazione della popolazione meno abbiente focalizzata su categorie ben precise e le politiche contro il razzismo e le discriminazioni mobilitano una critica specifica che allude a una mancata capacità della politica di pensare a chi è il baricentro della società. Questa insofferenza nei confronti delle politiche per gli Altri, i marginali, gli stranieri ecc., è stata al centro dei successi elettorali recenti di un Donald Trump, di un Matteo Salvini o, da ultimo, di un Jair Bolsonaro. Gli investimenti nelle periferie e nella formazione sono senza dubbio risposte al sentimento d’abbandono. Riequilibrare le politiche sociali o almeno spiegarne il senso è più complicato. Nondimeno, si deve arrivare a convincere non solo con la logica, ma anche con effetti concreti, la parte più importante della popolazione – quella che sta per abbandonare il progetto pluralista della società se non ne vede vantaggi personali e concreti.
Bibliografia
Boulila, Stefanie Claudine (2018). «Race and racial denial in Switzerland.» Ethnic and Racial Studies Published online: 29 Jul 2018.: 1–18.
Cattacin, Sandro (2010). «Einschluss und Ausschluss von Verschiedenheit in der reflexiven Moderne», in Schweizerisches Rotes Kreuz (a cura di). Einschluss und Ausschluss. Betrachtungen zu Integration und sozialer Ausgrenzung in der Schweiz. Zürich; Genève: Seismo, p. 126–132.
Goodin, Robert E. e Julian Le Grand (2018 [1987]). Not only the poor: The middle classes and the welfare state. London: Routledge.
Hausammann, Christina (2008). Instrumente gegen Diskriminierung im schweizerischen Recht – ein Überblick. Bern: Im Auftrag des Eidgenössischen Büros für die Gleichstellung von Menschen mit Behinderungen EBGB und der Fachstelle für Rassismusbekämpfung.
Hoffmann-Nowotny, Hans-Joachim (1970). Migration: ein Beitrag zu einer soziologischen Erklärung. Stuttgart: F. Enke.
Kälin, Walter e Reto Locher (2015). Der Zugang zur Justiz in Diskriminierungsfällen. Bern: Schweizerisches Kompetenzzentrum für Menschenrechte (SKMR).
Ruhrmann, Georg, Johannes Kollbeck e Wolfgang Möltgen (1996). «‹Fremdverstehen›: Medienberichterstattung, Fremdenfeindlichkeit und die Möglichkeit von Toleranzkampagnen.» Publizistik 41(1): 32-50.