Contessi, Mumina
«A volte mi chiedo: che senso ha concedere interviste, ripetere le stesse cose, se poi la situazione non cambia?». Non c’è ottimismo nelle parole di Mumina Contessi, in Svizzera dal 1989, mediatrice culturale, membro della Commissione cantonale per l’integrazione degli stranieri. All’ex presidentessa della Comunità africana del Ticino, sostituita a partire da gennaio da Hawa Di Maria, abbiamo chiesto di parlare di razzismo verso le persone di colore.
Signora Contessi, il colore della pelle è ancora un tabù?
Purtroppo sì. Le persone nere percepiscono anche da un semplice sguardo la diffidenza, il razzismo, quando non arrivano commentini o appellativi poco simpatici, tipo «negro».
E la tendenza è quella di subire questo genere di discriminazioni?
Raramente se ne parla, in effetti, perché non tutti sanno come muoversi. Poi c’è una sorta di rassegnazione, ci si chiede, «chi mi ascolta?», «chi farà qualcosa per me?». Si lascia perdere, ci si dice che è inutile continuare a lottare perché tanto nessuno fa niente di concreto per cambiare la situazione.
A volte, però, ingoia oggi e ingoia domani, qualcuno scoppia.
Capita. Ricordo il caso di un ragazzo che veniva chiamato «negretto» sul luogo di lavoro e alla fine, dopo aver appurato che le sue lamentele non venivano ascoltate dal capo, ha sbottato e ha ferito con un coltello il collega. Ho parlato con questa persona perché contro di lei è stata sporta denuncia; il motivo di quel gesto violento è venuto a galla dopo. La cosa che mi ha lasciata perplessa è che l’altro, lungi dal prendersi le sue responsabilità, ha dichiarato che non si trattava affatto di razzismo, ma di uno scherzetto innocuo. Ci rendiamo conto?
La legge è abbastanza severa nel punire gli atti di razzismo?
Sono difficili da dimostrare. Se non c’è un testimone che ha udito con le sue orecchie gli insulti, diventa la mia parola contro la tua. Questo è un peccato perché se la gente sapesse che certe parole o certe azioni portano a reali conseguenze penali, farebbe più attenzione a comportarsi in un certo modo.
Queste forme discriminatorie sono dirette ai Neri in generale o solo agli africani?
La mia impressione è che siano rivolte agli stranieri tout court. Ma, visto che le persone con la pelle scura si mimetizzano meno facilmente, la loro condizione di immigrati è ben visibile e di conseguenza sono prese di mira più di altri.
Il razzismo però lo subiscono anche Neri naturalizzati, con regolare passaporto elvetico.
Certamente. I miei ragazzi, figli di padre ticinese e di me, che risiedo in Svizzera da anni, potrebbero subire un giorno questo genere di angherie, anche se per ora non è successo o, se è capitato, non me l’hanno detto. Ma studiano ancora. Il mondo del lavoro è più crudele della scuola.
Che cosa fa di concreto la Comunità africana del Ticino per combattere il problema del razzismo?
Cerchiamo di stare vicino alle persone che subiscono, di parlare con loro, di informarli su come agire se si sentono vittime di un atto di razzismo. Diciamo loro a chi possono rivolgersi. Organizziamo incontri e dibattiti sull’attualità che coinvolgano non solo i membri della Comunità, ma anche la popolazione locale, per spiegare chi sono gli africani e quali sono le loro abitudini. Ci sono eventi fissi annuali. Un incontro all’anno, per esempio, è dedicato alla letteratura africana; poi c’è un appuntamento gastronomico, la sagra dell’antilope, che ha come scopo quello di avvicinare la gente alla cultura africana attraverso il cibo.
Per quanto riguarda il razzismo in Ticino, le cose stanno migliorando o peggiorando ultimamente?
Mi pare che stiano peggiorando. L’Unione europea, gli accordi bilaterali e la libera circolazione delle persone purtroppo hanno come effetto secondario e involontario un sensibile aumento dell’odio verso gli extracomunitari.
Mi ripeta i luoghi comuni più famosi nei confronti degli africani.
Si dice che sono approfittatori, che non han voglia di lavorare, che non hanno nessuna intenzione di integrarsi.
Perché la gente azzarda questi giudizi?
Perché parla senza conoscere. Prima di giudicare, bisognerebbe quantomeno informarsi.
Il mondo del lavoro è equo? Una persona di colore, svizzera e qualificata, ha le stesse opportunità di un bianco?
Dipende. Se ti trovi di fronte una persona che odia gli stranieri e i Neri, il tuo curriculum diventa improvvisamente ininfluente. Qualche anno fa ci sono stati alcuni datori di lavoro elvetici che senza troppi giri di parole hanno esplicitato di non voler prendere in considerazione alcune candidature per motivi legati al colore della pelle. La cosa ha suscitato scalpore e se n’è parlato molto sui giornali.
Se ne parla, ma senza successo. Lei crede che le istituzioni si diano abbastanza da fare per migliorare questa situazione?
Non posso dire che non si faccia nulla, anzi, noto che si mettono in campo molte energie per sensibilizzare la popolazione. Nella Svizzera romanda e in quella italiana ogni anno si propone la Settimana contro il razzismo, che porta nelle piazze i temi di cui stiamo dibattendo, ricordando alla gente del posto che lo straniero è una risorsa, non qualcuno da temere o da allontanare. Però non è facile; c’è una mentalità dura da combattere, quella di chi ritiene che ognuno debba rimanere a casa propria.
Che ruolo gioca la politica in questo senso?
Un ruolo fondamentale. Pensi che ogni cinque anni c’è una legge nuova che peggiora la situazione dei rifugiati. Ci sono politici che sfruttano questa situazione per intercettare i voti: in Ticino questo ruolo lo gioca la Lega, che non fa che acuire l’odio nei confronti dello straniero.
Qual è stato l’episodio accaduto in Ticino che più l’ha toccata negli ultimi anni?
La votazione sull’immigrazione di massa.
L’obiettivo erano i frontalieri italiani, però.
Certo, ma mi ha rattristata lo stesso. Se c’è tale chiusura verso uno straniero, come l’italiano, che non deve imparare la lingua, che si veste come un ticinese, che è insomma molto, molto simile a chi abita qui, immaginiamoci che accoglienza può essere riservata a una persona che viene da un altro continente.
Che colpe hanno i media?
Diverse. Personalmente mi dà molto fastidio una certa immagine che viene data dell’Africa, presentata sempre nei suoi aspetti più tristi. Mai una volta che raccontassero la parte bella del nostro continente, le sue attrattive e i suoi punti di forza.
E questo, a suo avviso, è controproducente.
È un racconto dell’Africa parziale, che le rema contro. Le faccio un esempio: l’associazione Medici senza frontiere aiuta tantissime persone in tutto il mondo, ma quando deve fare una campagna per raccogliere fondi, che immagine usa? Quella del povero negretto che chiede la carità. L’Africa non è solo fame, non è solo malattia, così come gli immigrati che vengono qui non sono tutti poveracci che richiedono l’asilo. Ci sono anche africani che portano i loro soldi in Svizzera, che posseggono ville, aerei, macchine lussuose.
Negli ultimi anni Hollywood ha presentato diversi film sul tema della schiavitù nera negli Stati Uniti. Le cito solo l’ultimo, 12 anni schiavo, una storia durissima raccontata senza sbavature che non a caso ha vinto l’Oscar. Secondo Lei questo può essere d’aiuto?
Certamente. Sono contenta che si parli di questo tema, spesso passato sotto silenzio mentre vengono presentate sempre altre tragedie, per esempio l’Olocausto. È un dovere, da parte nostra, informare le giovani generazioni su quanto è successo. Solo così possiamo evitare di ripetere gli errori del passato.
Intervista a cura di Laura Di Corcia