TANGRAM 46

«Il diritto può mobilitare la società»

Autor

Tarek Naguib è giurista e collaboratore scientifico al Centro di diritto sociale della School of Management and LAW della ZHAW. tarek.naguib@zhaw.ch

Intervista a cura di Theodora Peter

Secondo il giurista Tarek Naguib, esperto di lotta alla discriminazione, le normative vigenti non bastano per combattere il razzismo strutturale: è convinto che una legge quadro complessiva contro tutte le discriminazioni strutturali permetterebbe di avviare dibattiti più approfonditi e di trovare soluzioni più innovative di quanto proposto finora.

Il diritto permette davvero di inquadrare il razzismo strutturale? In che misura?
Tarek Naguib: Dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa significhi strutturale nella prospettiva del diritto. Nella sostanza si tratta di conseguenze ed effetti delle leggi e della loro applicazione, le cui cause non vanno ricercate tanto in azioni od omissioni individuali concrete, quanto in contesti sociali sovraordinati. Nel caso del razzismo, si tratta di conseguenze riconducibili a forme di razzismo consolidatesi nella storia e sostenute (anche) dal diritto e dalla sua attuazione e imposizione. Questo si manifesta attraverso prassi e culture di Stato che sono permanentemente causa o concausa di discriminazioni o, nel migliore dei casi, non le impediscono adeguatamente.

Il diritto della migrazione, per esempio, riflette anche la storia del razzismo che, a sua volta, si manifesta nella prassi delle autorità competenti. L’accesso alla società svizzera è reso selettivamente possibile o impossibile attraverso permessi di soggiorno (C, B, F, S ecc.) e solo «apparentemente» secondo criteri scevri da razzismo. A un’osservazione più attenta, tuttavia, constatiamo che con l’emanazione e l’applicazione del diritto della migrazione sono trasportate e istituzionalizzate idee di estraneità e inferiorità appartenenti tanto al passato quanto al presente. I cittadini dell’UE e, fino a un certo punto, di tutti gli Stati del cosiddetto Nord del mondo hanno maggiori possibilità di ottenere un permesso di soggiorno o il passaporto svizzero, cioè il domicilio garantito, la libertà di movimento e l’accesso alle prestazioni statali. Attraverso i margini discrezionali delle autorità sia nell’accertamento dei fatti che nella valutazione giuridica, sono istituzionalizzate anche concezioni problematiche molto arcaiche dell’estraneità e dei limiti culturali della «capacità di adeguarsi». Inoltre, il diritto di soggiorno può essere revocato o declassato in qualsiasi momento, in particolare per disoccupazione, delinquenza o percezione di prestazioni dell’aiuto sociale. In questo modo, la popolazione residente «straniera» è gerarchizzata sulla base di un’interazione tra criteri socioeconomici e criteri razzisti.

D’altra parte, ci si chiede quali risposte possa dare il nostro diritto per impedire, combattere o sanzionare il razzismo.
In materia vigono già oggi disposizioni legali. Penso per esempio al divieto costituzionale di discriminazione e all’ordinanza sui progetti in favore dei diritti umani e contro il razzismo, che impongono alla Confederazione di condurre progetti specifici di prevenzione e sensibilizzazione. O al divieto di discriminazione e istigazione all’odio sancito dal diritto penale e a una serie di normative di diritto amministrativo e diritto privato che possono contribuire a convincere le persone a difendersi dal razzismo o a realizzare appositi progetti. Sull’argomento ci sono oramai abbastanza studi sinottici.

Sono sufficienti i regolamenti odierni?
No. In un primo passo sarebbe importante definire la discriminazione strutturale in una legge quadro, in modo che possa avere luogo nello Stato di diritto e nella società un’ampia e approfondita riflessione sulle fonti recondite del razzismo. Finora si è sempre parlato del razzismo come di un problema individuale, nel migliore dei casi riconducibile a pochi singoli. Ancora oggi la discriminazione continua a non essere percepita come un problema sociale e quindi nemmeno come una responsabilità dei decisori politici od operativi. Tutto questo, però, potrebbe cambiare: per esempio se nel quadro di una legge contro la discriminazione si parlasse di razzismo strutturale, le autorità di polizia, i politici che si occupano di sicurezza e la giustizia dovrebbero riflettere seriamente sulle modifiche necessarie nel diritto di polizia, nella formazione e nella formazione continua, nelle istruzioni di servizio, nel reclutamento del personale, nella gestione dei ricorsi e, soprattutto, nel controlling.

Ci sono anche limiti a quello che si può raggiungere con il diritto?
Ce ne sono alcuni, sì. Nel contesto di quest’intervista preferirei però limitarmi a quello principale, che risiede nel nostro ordine costituzionale stesso sul quale poggia il nostro sistema giuridico come Stato nazionale. Un ordine giuridico nazionale riprende di per sé la distinzione di cui parlavo prima tra «svizzeri» e «stranieri» e li gerarchizza secondo interessi economici e culturali e quindi anche secondo le concezioni razziste diffuse nella società. Per cambiare la situazione, dovremmo riflettere in maniera molto più approfondita sulla nostra concezione di politica nazionale della sicurezza, del benessere e della cittadinanza, nella quale, in passato come oggi, si è perlopiù trattato praticamente solo di garantire il nostro bisogno di identità, sicurezza e benessere con misure di polizia (e, recentemente, di nuovo con misure militari) rivolte contro gli «stranieri». Se si vogliono combattere il razzismo e le disuguaglianze di fondo sarebbe di gran lunga più efficace investire il denaro in un’infrastruttura di solidarietà come quella descritta dalla sociologa Sarah Schilliger. Secondo me, in linea con l’Istituto Nuova Svizzera, si tratta anche di promuovere una concezione della Svizzera come Paese in cui si vive bene e in cui lo Stato assume equamente le proprie responsabilità per tutti coloro che ci vivono e verranno a viverci. E anche qui, nonostante tutti i limiti del diritto, potrebbe essere utile una legge che mettesse a fuoco il razzismo o, meglio ancora, la discriminazione strutturale in quanto fenomeno molto più diffuso. Con l’introduzione di programmi giuridici, infatti, non solo si radicano diritti e doveri e si comprendono sviluppi sociali, ma si promuovono e si contribuisce ad avviare discorsi sociali innovativi in grado di mobilitare sempre più persone per il bene. I problemi fondamentali del razzismo, al di là di noi singoli individui, avrebbero molta più visibilità e di conseguenza un’importanza ben maggiore.

Come si riflettono i rapporti di potere sulla legislazione e la giurisprudenza di una società?
Come già accennato, il razzismo non è finora mai stato una categoria del diritto svizzero. Non abbiamo una legge contro la discriminazione né si parla di razzismo nella legislazione sull’istruzione, la socialità o la sicurezza o in altri campi del diritto. In questo senso, il divieto di discriminazione sancito dalla Costituzione federale non ha mai veramente inciso sulla storia del diritto svizzero. Conseguenza concreta e materiale di questa situazione è che anche la pubblica amministrazione e soprattutto la giustizia, che applica le leggi, non sono molto sensibili al tema. Per fare un esempio, sono molto pochi i procedimenti in cui sono tematizzati i controlli o la violenza della polizia – come è invece successo molto recentemente nei casi di Mohamed Wa Baile, Wilson A. o Mike Ben Peter, in cui, per la prima volta nella storia svizzera del diritto di polizia, è stata fatta valere con un’eccezionale determinazione la violazione del divieto costituzionale di discriminazione. Quello che è tipico, in questi casi, è che i giudici non si occupano affatto della loro giurisprudenza sul divieto di discriminazione. Questo significa che la giustizia non esamina correttamente se vi sia discriminazione. Se sembra che ve ne sia, conformemente alla giurisprudenza generale è la polizia a dover provare il contrario. Ma nel sistema giudiziario, la resistenza ad applicare i principi del diritto sarà sempre forte finché l’antirazzismo non avrà raggiunto la necessaria rilevanza nella giurisprudenza svizzera. Nella mia qualità di docente di diritto della Scuola universitaria di scienze applicate di Zurigo (ZHAW), dovrei dare un voto nettamente insufficiente agli studenti che affrontassero i casi in questo modo.

Ha altri esempi di razzismo strutturale nella giustizia?
I collegi giudicanti dei tribunali e i loro margini di apprezzamento giocano un ruolo importante. Al Tribunale amministrativo federale, per i casi di ricorso in materia d’asilo i giudici sono per esempio assegnati da un software. In questo modo si cerca di ottenere una composizione equilibrata della corte. È comunque data la possibilità d’intervenire manualmente quando vi siano motivi obiettivi, come l’onere lavorativo dei singoli giudici. Questo può tuttavia anche comportare che le decisioni non siano per nulla razziste o lo siano più o meno in funzione della composizione del collegio. Anche se ogni singolo giudice è vincolato alla legge, l’appartenenza a un partito ha pesanti conseguenze e sfocia in decisioni politicizzate. Per la giustizia svizzera il pericolo è piuttosto concreto, anche perché nella formazione e nella formazione continua dei giuristi e nelle pubblicazioni giuridiche il razzismo è ancora un tema pressoché assente. Una legge che ne tematizzasse questi aspetti strutturali potrebbe non soltanto innalzare il livello di sensibilità, ma anche aumentare la pressione sulla giustizia e tutte le istituzioni delle Stato di diritto a sviluppare strumenti e processi efficaci di prevenzione della discriminazione razziale.

Secondo Lei, quali altri cambiamenti sarebbero necessari per combattere il razzismo strutturale?
L’eliminazione delle diseguaglianze strutturali non è mai caduta dal cielo, ma ha sempre dovuto essere conquistata. Si è visto nelle lotte del movimento femminista e si vede ora nella lotta al razzismo. Da queste lotte nascono leggi che non solo danno nuove possibilità di difendersi davvero contro l’ingiustizia, ma hanno anche un effetto sulla società. La legge sui disabili, per esempio, ha avuto un forte impatto sull’edilizia e quindi anche sulla visibilità delle persone con disabilità nello spazio pubblico. Non che prima non vi fossero prescrizioni, ma ora sono più esplicite. Questo effetto è riscontrabile in tutto il mondo per tutte le leggi contro il razzismo: dove ne sono state introdotte, vi è sempre stato un forte impulso sulla società, su larga parte della popolazione e sui media. Ci sono più procedimenti giudiziari e si riflette di più sull’argomento.

Ci sono esempi in altri Paesi?
Ci sono buoni esempi nel Regno Unito, dove negli anni 1950 e 1960 si è riusciti a fare emanare le leggi sulle relazioni razziali (Race Relations Acts). Grazie ai progressi in campo legale, non solo sono stati resi possibili ricorsi più efficaci, ma si sono anche vincolate istituzioni e amministrazioni a fare opera di sensibilizzazione – compresi il monitoraggio e l’obbligo di riferire. Nel 2010, infine, la legge sull’uguaglianza (Equality Act) ha riunito altre leggi contro la discriminazione. Le acquisizioni legislative hanno tuttavia sempre un che di ambivalente: nel caso della discriminazione, in tutto il mondo, dovunque si sia riusciti a fare emanare leggi, si è visto che la società civile ha in seguito perso slancio. Questo è comprensibile, ma è tuttavia importante che dopo la sua entrata in vigore, una legge sia utilizzata sistematicamente e strategicamente dinanzi ai tribunali, anche mediante ricorsi.