TANGRAM 46

Discriminazione strutturale nel sistema formativo

Autore

Elke-Nicole Kappus insegna nel settore «Diversità e società» all’Alta scuola pedagogica di Lucerna ed è co-responsabile del gruppo di lavoro «Formazione e migrazione» della Camera delle alte scuole pedagogiche di swissuniversities. elke-nicole.kappus@phlu.ch

Le istituzioni di formazione non possono «eliminare» la discriminazione strutturale presente nella società, ma possono combatterla nel proprio ambito di attività.

Per discriminazione strutturale si intendono «un’esclusione e una condizione di svantaggio di determinati gruppi» talmente radicate nella società da essere «accettate come "normali" e, quindi, non necessariamente percepite o messe in discussione» (Servizio per la lotta al razzismo, 2021). Tale forma di discriminazione riflette visioni del mondo e degli esseri umani consolidatesi nel corso della storia, nonché valori, atteggiamenti e azioni perlopiù inconsci. Essa costituisce il sostrato della discriminazione istituzionale, vale a dire «la discriminazione nel quadro di strutture formali, giuridiche e organizzative, programmi, regole e prassi di istituzioni sociali di importanza cruciale» (Gomolla 2008). Quest’ultima, a sua volta, crea i presupposti per la discriminazione individuale, che nelle interazioni spesso passa inosservata e avviene involontariamente, ma in questo modo riproduce e consolida le condizioni di svantaggio su cui è fondata. Sulla base di queste premesse, appare opportuno rivolgere lo sguardo alla storia del sistema formativo moderno e al suo ruolo nella costruzione della società moderna e nella divulgazione di visioni del mondo e degli esseri umani.

Formazione, cultura e appartenenza

Come molte istituzioni odierne, il sistema formativo moderno affonda le radici nel XIX secolo: le competenze che la società richiedeva agli individui – a tutti gli individui – ormai non potevano più essere trasmesse nel quadro delle strutture familiari, corporative o religiose tradizionali. Tecniche culturali, come leggere, scrivere e fare di conto, rimaste fino ad allora prerogativa di ristrette cerchie sociali dovevano far parte delle «competenze di base» di ogni individuo. Con l’introduzione dell’obbligo scolastico generalizzato, lo Stato si assunse la responsabilità dell’insegnamento di queste competenze, propedeutiche all’istruzione superiore e funzionali alle esigenze dell’economia.

Oltre alle «tecniche» necessarie per vivere nella società moderna, la scuola – ogni livello a modo suo – trasmetteva conoscenze sulle persone e sulle cose, sulla loro categorizzazione e appartenenza e sul «noi» e l’«altro». Tali nozioni generali diventarono parte della «cultura» collettiva e fondamento della rappresentazione della nazione moderna come «comunità immaginata» (Anderson, 1998). Nelle scuole pubbliche, i giovani non apprendevano soltanto le competenze per inserirsi con successo nel tessuto economico, ma anche visioni del mondo, degli esseri umani e dei ruoli di genere, così come atteggiamenti, posizioni e pratiche che li rendevano «membri immediati della comunità culturale e linguistica» e, di conseguenza, candidati a una «cittadinanza moralmente legittimata» (Szporluk, 1998; Oester & Kappus, 2005).

Oltre alla qualificazione e all’inculturazione, la scuola pubblica si assunse anche il compito di attribuire determinate posizioni all’interno della società (Fend 2008): la «comunità culturale e linguistica» creata tramite la scuola dell’obbligo poteva in seguito, nel prosieguo del percorso formativo, essere nuovamente differenziata in base a misurazioni del rendimento. Tramite il monopolio sull’istruzione, lo Stato moderno riuscì a mantenere credibile la promessa dell’uguaglianza civica nonostante le nuove disparità e stratificazioni sociali generate dal capitalismo industriale (Fend 2008; Nassehi, 2011) e senza sconvolgere radicalmente l’ordinamento sociale. L’istruzione consentiva sì la mobilità sociale, ma il sistema formativo indirizzava l’ascesa sociale in base al ceto e al genere. La formazione professionale aprì nuove opportunità ai giovani di famiglie operaie e contadine, mentre le università rimasero ancora a lungo appannaggio delle classi privilegiate sotto il profilo socioeconomico. Con offerte formative specifiche, ragazze e ragazzi venivano preparati ai ruoli che la società aveva previsto per loro. Il fatto che una tale attribuzione di ruoli sulla base dell’estrazione sociale e del genere stridesse con l’ideale meritocratico della società moderna venne evidenziato soltanto grazie agli appelli al principio delle pari opportunità (Scherr 2008). Con l’espansione della formazione secondaria e terziaria negli anni 1960 e 1970, il tema della riproduzione delle disparità di classe e di ceto da parte del sistema formativo acquisì infatti un’importanza crescente (p. es. Bourdieu & Passeron 1971; Willis 1977).

Per lungo tempo, la scuola pubblica ignorò la questione dell’istruzione e della formazione di stranieri e migranti: nell’«ordine nazionale delle cose», ogni Paese era responsabile della formazione dei propri cittadini. Per gli stranieri, la qualificazione, l’inculturazione e l’attribuzione di posizioni nella società semplicemente non erano previste, tranne che nelle università. Ciò spiega perché, non soltanto in Svizzera, i sistemi formativi nazionali ebbero difficoltà a integrare i migranti, e perché, dopo la decisione presa negli anni 1970 di scolarizzare i figli dei «lavoratori ospiti» nelle scuole pubbliche svizzere, molti di questi bambini furono inseriti non negli istituti ordinari ma in scuole speciali o in classi a numero ridotto. L’appartenenza alla «comunità linguistica e culturale», la quale, come ricordato in precedenza, costituiva una condizione imprescindibile per qualsiasi rivendicazione di «pari opportunità», presupponeva l’uniformazione linguistica e culturale, se del caso tramite l’assimilazione. Quando quest’ultima risultava indesiderata o non veniva raggiunta, veniva meno anche il diritto di appartenenza alla comunità.

All’interno del sistema formativo, la combinazione tra discriminazione sociale ed etno-culturale ha comportato e comporta a tutt’oggi la «penalizzazione sistematica dei bambini con un retroterra migratorio», con «gravi conseguenze per le loro opportunità future», come afferma Alain Stampfli nel suo articolo «Il razzismo strutturale: un tentativo di approccio». Ancora oggi, la precarietà del senso di appartenenza è sovente parte integrante dell’esperienza quotidiana delle persone con un retroterra migratorio vissuto o attribuito. Inoltre, nei mezzi di comunicazione e nelle discussioni di tutti i giorni spesso non si distingue tra migranti, stranieri e persone che non corrispondono all’immagine stereotipata di uno svizzero o una svizzera. Tutto ciò dimostra come, negli ultimi decenni, le categorie alla base dell’idea del «noi» e dell’«altro» siano rimaste sostanzialmente invariate. Tali categorie sono così profondamente radicate nella società che le discrepanze con la realtà vissuta in Svizzera non sono «necessariamente percepite o messe in discussione» (SLR 2021). Basti pensare che il 25 per cento della popolazione residente permanente di più di 15 anni non ha il passaporto svizzero, che il 38 per cento ha un retroterra migratorio e che a un numero indefinito di persone viene attribuito un simile retroterra a causa del colore della pelle o della fisionomia.

Formazione, diversità e pari opportunità

Negli ultimi 50 anni, la ricerca educativa e il monitoraggio dell’educazione hanno vieppiù evidenziato che la «prestazione individuale» non può essere compresa in maniera avulsa «dal contesto di socializzazione, dalle competenze linguistiche e dal comportamento sociale» (Emmerich & Hormel, 2013) e che i ruoli attribuiti dalla società e legati al genere, all’estrazione sociale, all’appartenenza etno-nazionale ecc. possono influenzare le prestazioni e la loro valutazione. Oggi disponiamo di ampie conoscenze sui meccanismi e sugli effetti della discriminazione strutturale, istituzionale e individuale in ambito formativo, nonché sulle possibilità per porvi rimedio (cfr. bibliografia).

Sin dalla sua prima uscita nel 2006, il rapporto sul sistema educativo svizzero del Centro svizzero di coordinamento della ricerca educativa tiene conto dei fattori «provenienza sociale», «genere» e «retroterra migratorio» per richiamare l’attenzione su possibili «punti focali della mancanza di equità», equità che è considerata un indicatore cruciale della qualità di un sistema formativo. La Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione persegue e promuove le pari opportunità come obiettivo programmatico di livello sovraordinato, «indipendentemente da genere, nazionalità, età, provenienza, religione, status sociale o da un’eventuale disabilità fisica, mentale o psichica».

Investimenti e progetti, ad esempio nell’ambito del sostegno alla prima infanzia, della formazione professionale, della transizione da un livello scolastico all’altro e della permeabilità del sistema formativo nel contesto dell’apprendimento permanente, testimoniano l’impegno della politica e delle istituzioni formative – anche nel campo della migrazione. Come attesta il monitoraggio dell’educazione, l’estrazione sociale, il genere e il retroterra migratorio continuano tuttavia a influenzare le opportunità formative. Soprattutto la combinazione di diversi fattori favorisce la discriminazione: alla figura della «ragazza di campagna cattolica di famiglia operaia», che negli anni 1960 costituiva l’emblema della discriminazione multipla, è subentrata quella del «ragazzo musulmano di un quartiere urbano difficile». Dopo il posto di lavoro e lo spazio pubblico, le istituzioni formative sono il contesto in cui le persone subiscono le maggiori discriminazioni. Com’è possibile?

Dal nazionalismo metodico alla critica della discriminazione

Siccome le istituzioni formative e i loro attori si concepiscono prevalentemente come promotori dell’integrazione e delle pari opportunità, spesso non fanno sufficientemente i conti con l’esclusione e la discriminazione. Se però diamo credito alle considerazioni sulla discriminazione strutturale e istituzionale illustrate all’inizio del presente contributo, le visioni del mondo e degli esseri umani e i conseguenti «valori, atteggiamenti e azioni», profondamente radicati «nelle strutture, nei programmi, nelle regole e nelle prassi di istituzioni sociali di importanza cruciale» (Gomolla 2008), agiscono a livello inconscio. Ciò che in passato corrispondeva all’«ordine delle cose» auspicato, oggi produce varie forme di discriminazione dagli effetti diversi (sessismo, razzismo, classismo, abilismo ecc.). Per modificare o limitare queste dinamiche, le istituzioni sono chiamate «a prendere atto in modo esplicito e appropriato» dell’esistenza della discriminazione e delle sue cause e a «fare i conti con esse mediante programmi e atteggiamenti esemplari a livello operativo e direttivo». In caso contrario, la discriminazione e il razzismo «possono permeare l’etica e la cultura dell’organizzazione» (Macpherson of Cluny 1999, in Gomolla 2008).

Nelle istituzioni formative, il tema della discriminazione e del razzismo costituisce invece spesso un tabù. Nel piano di studio 21 (Lehrplan 21), il dualismo tra «noi» e l’«altro» compare ripetutamente sotto forma di una concezione «chiusa» della cultura. Manca inoltre un’analisi approfondita delle rappresentazioni stereotipate presenti in materiali didattici e libri scolastici; solo poche scuole, inoltre, vantano procedure sistematiche in tema di discriminazione e la non discriminazione continua a essere scarsamente considerata nelle valutazioni delle scuole e a non costituire parte integrante dei processi di sviluppo scolastico. Molte raccomandazioni formulate dalla CDPE tra il 1972 e il 1995 in merito all’«integrazione dei figli dei lavoratori ospiti» e degli «allievi con un retroterra migratorio» oppure alla lotta al razzismo (CDPE 1995) sono tuttora di attualità e attendono di essere aggiornate e attuate. È giunto il momento di mettere in pratica le conoscenze in materia di non discriminazione all’interno delle istituzioni e di affrontare il tema della discriminazione.

Se non è in grado di «eliminare» la discriminazione strutturale presente nella società, il sistema formativo può comunque dotare docenti e allievi di uno sguardo critico che consenta loro di riconoscere e – nella propria sfera d’azione – combattere la discriminazione. Inoltre può diventare uno spazio in cui sperimentare l’appartenenza alla società superando la classica dicotomia tra «noi» e l’«altro» per creare un «nuovo noi». Il successo sarà tanto maggiore quanto più la società nel suo insieme riuscirà a promuovere le pari opportunità e il senso di appartenenza nel contesto di una «cittadinanza» che comprenda anche i gruppi non (ancora) considerati dal modello civico classico del XIX secolo.

Il concetto di discriminazione istituzionale libera dalla questione della colpa, perché consente di interpretare la discriminazione come «logico» risultato di uno scollamento tra il retaggio storico delle istituzioni e le funzioni che queste devono svolgere per la società e l’economia. In tempi di rapidi cambiamenti, le visioni del mondo e degli esseri umani, gli obiettivi ecc. non fanno in tempo a essere recepiti a livello istituzionale che il mondo è già di nuovo mutato. È nella natura delle cose, ed è responsabilità degli individui e delle istituzioni riconoscere questa «discrepanza» e superarla nel quadro dei processi negoziali democratici.

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