TANGRAM 46

Capire e combattere il razzismo strutturale, una sfida epocale

Autor

Matteo Gianni è professore al dipartimento di scienze politiche e relazioni internazionali e membro dell’Institut d’Etudes de la Citoyenneté (InCite) dell’Università di Ginevra. Dal 2014 fa parte del «NCCR – On the move», un centro nazionale di competenza in ricerche su migrazione e mobilità con base all’Università di Neuchâtel. Matteo.Gianni@unige.ch

Il razzismo strutturale non è finito con il razzismo biologico, ma sopravvive in concetti essenzializzati e naturalizzati come etnia, cultura o religione, veicolato da locuzioni linguistiche o comportamenti spesso inconsci. Per combatterlo, è necessario abbandonare la logica individuale della lotta al razzismo per agire a livello istituzionale e collettivo e rendere visibile la «razza» come categoria politica, dando voce agli appartenenti alle minoranze razzializzate.

«Sono autorizzato e legittimato, io uomo bianco, professore universitario (e dunque privilegiato), di età matura (quindi benestante), a scrivere sul razzismo strutturale? La mia condizione è il risultato di un’intersezione di privilegi, mentre quella delle persone razzializzate di cui dovrei scrivere è generalmente un groviglio di svantaggi ed esclusioni. Come, quindi, scrivere su di loro o a loro nome, quando possono farlo benissimo da soli e oltretutto con cognizione di causa?». Ecco le domande che mi sono immediatamente posto dopo aver ricevuto da Tangram la proposta di contribuire a questo numero. Dopo lunga riflessione, ho accettato, anche se nel mio intimo non sono tuttora convinto di avere preso la decisione giusta. Infatti, mi chiedo se, appropriandomi della parola delle persone razzializzate, non contribuisca io stesso a riprodurre un sistema di dominazione e a rendere legittimo un privilegio illegittimo, cioè quello di avere un potere culturale, di avere una voce pubblica autorizzata, che certo credo sia compatibile con le mie conoscenze politiche e accademiche, ma che è anche, al di là del mio caso, un privilegio frutto di una lunga storia di esclusioni.
Immagino già cosa potrebbero pensare molti lettori delle mie perplessità. Credo che parecchi riterranno che la mia preoccupazione sia inutile o allora la manifestazione lampante del politicamente corretto dominante nelle università o nel pensiero progressista. Ritengo che si sbaglino. Porsi una tale domanda non è corretto solo politicamente (nel senso di evitare ingiustizie politiche, come ad esempio quella di parlare a nome di altri e occultare la loro voce), ma lo è soprattutto intellettualmente ed eticamente. In effetti, non porsela – per ragioni legate a competenze, visibilità, meriti, statuti o altro – può essere visto precisamente come un’indicazione della persistenza del fenomeno discusso in quest’articolo: il razzismo strutturale.

Cosa è il razzismo strutturale?

Il concetto di razzismo strutturale si basa sull’idea che le discriminazioni razziali siano il prodotto di meccanismi strutturali che perpetuano rapporti di potere su base razziale, i quali decretano esclusioni e privilegi. In sostanza, il razzismo strutturale indica che determinati gruppi subiscono esclusioni, subordinazioni e svantaggi radicati nella società e cristallizzatisi nel corso della storia moderna, fortemente strutturata dalla logica coloniale. Come hanno dimostrato vari ricercatori, anche Stati – come la Svizzera – che non hanno intrapreso conquiste coloniali non sono immuni dall’ideologia coloniale e razziale, visto che ha segnato pratiche economiche, sociali e politiche le cui dinamiche ed effetti hanno avuto un impatto globale (Purtschert et al. 2013).

Benché l’idea biologica di razza sia ormai considerata infondata, e quindi le manifestazioni di razzismo siano sempre più stigmatizzate nello spazio pubblico, o la razza sia rappresentata come un tabù, reminiscenza di altri luoghi e altri tempi (Michel, 2020), il razzismo continua ad agire nelle società contemporanee. Più precisamente, il debellamento del razzismo biologico non implica la fine della razzializzazione, quindi del processo attraverso il quale il gruppo dominante attribuisce caratteristiche disumanizzanti e inferiorizzanti a un gruppo o dei gruppi dominati, attraverso forme di denigrazione, oppressione, violenza diretta o istituzionale, che producono una condizione di svantaggio ed esclusione materiale e simbolica (Young, 1990). Nozioni essenzializzate e naturalizzate di etnia, cultura, identità, religione, origine o status migratorio hanno sostituito la razza nei discorsi e nelle pratiche razzializzanti. Pregiudizi razziali radicati in forme linguistiche, simboli, comportamenti e pratiche sociali considerati «normali» producono effetti discriminatori, violenze, ferite psicologiche e svantaggi senza essere necessariamente percepite dai membri della maggioranza culturale come problematiche o ingiuste. La persistenza e le manifestazioni del razzismo sono quindi un processo spesso inconscio per gli individui della maggioranza culturale.

Post-razzialismo e razzismo strutturale

Per capire la logica del razzismo strutturale nelle società liberali e democratiche occorre considerare quello che, in ambito anglo-sassone, è denominato il paradigma post-razziale (postracialism) (Taylor, 2014). Si tratta di un discorso istituzionale e sociale che sancisce il superamento del razzismo legato al colonialismo e alla segregazione. Nella misura in cui il razzismo è stato debellato da politiche antirazziste e anti-discriminatorie, quando si manifesta non è per ragioni istituzionali, culturali o sistemiche, ma a causa di comportamenti individuali «devianti». In quest’ottica, l’uguaglianza razziale è ora un fatto acquisito e sancito per legge sulla spinta di politiche d’uguaglianza cieche al colore della pelle (color-blind) che avrebbero scardinato i privilegi razziali.

Questa posizione non riconosce gli effetti dell’esistenza di un razzismo strutturale o di un passato – sempre presente – di subordinazione razziale. In sostanza, per i teorici critici della razza produce esattamente l’effetto opposto a quello auspicato: in nome di un’uguaglianza formale e legale, ricrea delle ingiustizie razziali, anche se fondate su un razzismo senza razza (Michel, 2020), visto che la logica della cecità al colore si pone in opposizione alla mobilitazione di categorie razziali. Come nel pensiero magico, la cecità alle differenze etniche o razziali è considerata il mezzo per produrre l’uguaglianza fra i membri della maggioranza e delle minoranze. Ora, se fosse davvero così, lo si saprebbe da tempo. Per vari specialisti della questione, la struttura razziale rimane presente, ma attraverso pratiche e discorsi più impliciti e senza fare sempre riferimento a categorie razziali esplicite.
Quindi, non «vedere» la razza e le discriminazioni ad essa legate aiuta poco a decostruire le strutture razziste o a migliorare concretamente le condizioni in cui vivono ogni giorno le persone razzializzate. Per cercare di smantellare strutture inique e discriminatorie, è necessario rendere visibile la razza, soprattutto come categoria politica. Considerare la razza come una questione politica, e non solo etica, storica, biologica o altro, permette di cercare di capire quali sono gli effetti che produce in un dato contesto – ad esempio chi trae benefici dall’idea di razza, chi subisce svantaggi (nel campo del lavoro, della medicina, della salute ecc.) a causa dei pregiudizi razziali, e chi ottiene potere e privilegi. Occultare la razzializzazione è un modo per rafforzare il razzismo strutturale.

Come combattere il razzismo strutturale?

A un problema strutturale occorre apportare soluzioni complesse e multi-dimensionali. Non ci sono ricette magiche. Mi sembra però importante delineare due piste che – oltre al rafforzamento di politiche di antidiscriminazione e lotta contro discorsi razzisti nello spazio pubblico – possono contribuire a perseguire questo obbiettivo in modo collaborativo.
La prima consiste nel prendere politicamente coscienza che il problema del razzismo strutturale implica l’abbandono di una logica puramente individuale di lotta al razzismo. Sostenere individui che non dispongono delle risorse materiali, giuridiche, culturali o simboliche adeguate per essere trattate con eguale rispetto (Galeotti, 2010), è certamente necessario. Tuttavia, mettere sistematicamente l’accento sui fattori individuali occulta le cause strutturali degli svantaggi e delle esclusioni. È quindi necessario agire a livello istituzionale e collettivo, ad esempio concependo nuove forme di organizzazione (presenza di membri delle minoranze, criteri di gestione pubblica sensibili alla problematica della razzializzazione ecc.).
La seconda consiste nel riconoscere la voce politica dei membri delle minoranze razzializzate e dare il giusto valore alle loro proposte politiche. Questo implica accettare la politicizzazione della razza come fattore di trasformazione sociale e politica. Dare voce e presenza politica implica, ad esempio, lottare contro le ingiustizie epistemiche (Della Croce, Gianni e Marino, 2021), quindi accettare le conoscenze ed esperienze legittime dei membri dei gruppi razzializzati. Attraverso atti linguistici argomentati nel rispetto della differenza è possibile deliberare collettivamente su come trasformare i valori, l’appartenenza e le istituzioni comuni in un senso sempre più inclusivo ed equo. Non sarà invece mai possibile sradicare il male dell’essenzialismo razziale attraverso la sua sostituzione con altri essenzialismi – che, per definizione, non permettono una deliberazione ragionata e trasformazioni collettive condivise.
Unicamente a queste condizioni l’idea di società post-razziale non sarà solo uno slogan dettato dalla maggioranza, ma un vero ideale al quale tendere al fine di realizzare una giustizia sociale e culturale degna di questo nome.

Bibliografia:

Della Croce, Y., Gianni, M. e Marino, V. (2021). "What’s True in Truth and Reconciliation? Why Epistemic Justice is of Paramount Importance in Addressing Structural Racism in Healthcare", The American Journal of Bioethics 21:3, 92-94.
Galeotti, AE. (2010). La politica del rispetto. Bari: Laterza.
Michel, N. (2020). "Le racisme ‘sans race’", Tangram 44: 80-89
Purtschert, P., Falk, F. e Lüthi, B. (Hg.) (2013). Postkoloniale Schweiz: Formen und Folgen eines Kolonialismus ohne Kolonien. Transcript Verlag.
Taylor, Paul C. 2014. “Taking Post-Racialism Seriously: From Movement Mythology to Racial Formation.” Du Bois Review, 11 (1): 9–25.
Young, iris (1990). Justice and the Politics of Difference. Princeton: Princeton University Press.