Autori
Marie Saulnier Bloch è segretaria nazionale per la migrazione al sindacato Unia. marie.saulnierbloch@unia.ch
Hilmi Gashi è responsabile nazionale dei gruppi di interesse al sindacato Unia e membro della Commissione federale contro il razzismo. hilmi.gashi@unia.ch
Il punto di vista dei sindacati sulle discriminazioni si concentra sugli addentellati tra i meccanismi di discriminazione istituzionale e discriminazione strutturale allo scopo di individuare strumenti concreti di prevenzione e lotta, per una società più giusta.
Determinate persone non sono trattate né hanno le stesse opportunità delle altre nella vita quotidiana, sulla scena politica o sul luogo di lavoro in quanto appartenenti a una particolare categoria. È sotto gli occhi di tutti che l’organizzazione sociale svizzera alimenta questa classe di serie B, tanto più che le istituzioni, attraverso le loro norme e prassi, impongono sistematicamente condizioni meno favorevoli a una parte della popolazione che considerano una minoranza e la mantengono tale. Un intreccio di discriminazioni strutturali e istituzionali, dirette e indirette, impedisce a queste persone una piena partecipazione alla società, così come il riconoscimento dei loro diritti e della loro dignità individuale. Questa problematica è caratterizzata da rigidità e meccanismi di dominio sociale, politico, giuridico ed economico che alimentano un contesto polarizzato dove, ancora nel 2022, persistono le espressioni classiste, xenofobe, razziste, sessiste, omofobe, transfobiche e abiliste. Dopo aver presentato diverse considerazioni su questo argomento, illustreremo diversi esempi di rivendicazioni sindacali concrete da attuare con urgenza.
Numerose categorie di persone non hanno accesso alle risorse pubbliche e alle offerte del mercato privato a causa di forme di discriminazione aperte, ma soprattutto dissimulate. Questo fenomeno si manifesta in particolar modo sul lavoro, nella formazione, nella ricerca di un alloggio, nella giustizia e nell’aiuto sociale tramite regole e prassi istituzionali. Se è evidente che il razzismo e ogni forma di stigmatizzazione basata soprattutto sull’origine, la nazionalità, l’identità di genere, l’orientamento sessuale o l’esteriorità non sono opinioni private e hanno gravi conseguenze per le persone che li subiscono e il loro ambiente, le disposizioni come l’articolo 261bis del Codice penale (CP) e l’articolo 171c del Codice penale militare (CPM) non sanzionano tutti i comportamenti problematici; inoltre, l’onere della prova rende molto difficile tutelare in modo adeguato le vittime e risarcirle per i danni subiti. Numerosi specialisti e persone attive sul campo, tra cui i sindacati, denunciano regolarmente le lacune materiali e l’applicazione parziale delle norme contro la discriminazione .
Per esempio, le cittadine e i cittadini di Stati non membri dell’Unione europea sono particolarmente soggetti a discriminazioni istituzionali , a meno che non ricoprano un’alta carica o non dispongano di risorse finanziarie eccezionali. Constatiamo come le lavoratrici e i lavoratori senza passaporto svizzero, per di più provenienti da Stati cosiddetti «terzi», debbano affrontare molteplici ostacoli burocratici e finanziari, quando non sono addirittura privati dei diritti di cui godono i loro colleghi e vicini. La legislazione in materia, ossia la legge federale sugli stranieri e la loro integrazione, l’accordo sulla libera circolazione delle persone o la legge sull’asilo, è continuamente a inasprita. Del resto, il processo di naturalizzazione è irto di difficoltà e i diritti politici delle persone straniere residenti in Svizzera sono riconosciuti soltanto in un numero esiguo di Cantoni e Comuni. Tuttavia, molte persone che vivono e lavorano in Svizzera, a volte sin dalla nascita, quindi straniere solo sulla carta, sono escluse dalla cittadinanza, come se avessero più doveri che diritti. Ogni giorno, negli uffici dei sindacati di tutto il Paese arrivano lavoratrici e lavoratori che cercano aiuto per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno e di lavoro. Il rischio di perderlo del tutto è per molti di loro una realtà quando si trovano costretti a ricorrere all’aiuto sociale in caso d’infortunio o malattia perché hanno un reddito insufficiente. È il caso di una coppia residente in Svizzera da 15 anni, in possesso del permesso C, che da due anni riceve un aiuto sociale per un importo superiore ai 50 000 franchi. A tutto questo si aggiunge il fatto che i Cantoni e i Comuni applicano in modo diverso la legge federale, violando il principio dell’uguaglianza di trattamento. Inoltre, abbiamo constatato che i permessi L (per dimoranti temporanei) vengono accordati per lavori non limitati nel tempo e che i diretti interessati non vengono informati dei loro diritti. Il sospetto di un ritorno mascherato allo statuto di stagionale si fa sempre più concreto. Numerosi membri del sindacato in possesso del permesso F (ammissione provvisoria, con o senza riconoscimento dello statuto di rifugiato) sono costretti a separarsi dai propri cari dopo aver lottato per la sopravvivenza, dato che il loro statuto impedisce il ricongiungimento famigliare, e anche la possibilità di ottenere il permesso B viene costantemente rimandata. Non è raro incontrare persone con un permesso «provvisorio» da 10, 20 o più anni. Questo statuto comporta reali difficoltà nel trovare un alloggio, un lavoro decente, stipulare un’assicurazione o avere una prospettiva di lungo termine. Infine, le persone sprovviste di un permesso di soggiorno regolare, i cosiddetti sans-papiers, che siano nate o studino o lavorino sul suolo svizzero, pur dando il loro contributo quotidiano alla società, sono gravemente svantaggiate dal punto di vista istituzionale e sociale finché non vengono regolarizzate.
Alle discriminazioni istituzionali si aggiungono, a livello sociale e di società, discriminazioni strutturali alimentate da rapporti di potere iniqui. Il mercato delle assunzioni e quello occupazionale, con condizioni lavorative e salariali poco regolamentate, producono una schiera di lavoratrici e lavoratori che dipendono molto più degli altri dai loro datori di lavoro. Le forme di lavoro atipico, sempre più diffuse, come il lavoro a tempo parziale, il lavoro su chiamata, i contratti a «zero ore», il falso lavoro indipendente, il lavoro su piattaforme digitali, i contratti a catena o gli stage lunghi non retribuiti causano incertezza e riducono il margine di manovra e l’autonomia socioprofessionale. I working poor che non hanno accesso alle indennità di disoccupazione o alle indennità per perdita di guadagno sono tra le categorie più colpite, come le persone senza fissa dimora, la comunità LGBTIQ, gli ospiti dei foyer collettivi, le persone con disabilità, i beneficiari dell’aiuto di emergenza e le vittime di violenza domestica o della tratta di esseri umani. Il rischio è ancor più grave se si tratta di persone razzializzate o straniere, se appartengono a una minoranza religiosa o culturale, se sono sprovviste di un permesso di soggiorno o se il loro permesso non è stabile. Allo stesso modo, le persone con un diploma extraeuropeo fanno molta fatica a far riconoscere i loro documenti e quindi anche le loro competenze. Questi ostacoli li espongono maggiormente al dumping salariale e a situazioni di precarietà sul lavoro. Numerose sono le classi salariali non trasparenti e le carriere ostacolate da criteri restrittivi nell’accesso alle offerte di formazione continua e alle formazioni retribuite.
L’analisi intersezionale della situazione ci ha permesso di capire che le discriminazioni non sono cumulative, ma presentano un intreccio complesso. L’esperienza delle donne extraeuropee razzializzate mostra il legame intrinseco tra molteplici forme di discriminazione. Le donne, generalmente più esposte alla disoccupazione frizionale e strutturale, registrano una sovra-disoccupazione sistematica e quelle più colpite sono le donne immigrate . Tuttavia, se il tasso di occupazione delle lavoratrici è sempre inferiore a quello dei colleghi maschi, quello delle cittadine provenienti da Stati non membri dell’UE è quasi sempre superiore a quello delle donne svizzere che hanno almeno un figlio di età inferiore ai 5 anni . Perché sempre più donne sono costrette a combinare lavoro e responsabilità genitoriale, coniugale e domestica? Più esposte al dumping salariale rispetto agli uomini e dipendenti solo dal proprio reddito per provvedere alla famiglia, queste donne non riescono a pagare le fatture e sono quindi costrette a svolgere più lavori sottopagati senza alcun riconoscimento delle loro qualifiche. Quando non hanno un’attività salariata o la perdono, rappresentano la percentuale più alta di persone che restano permanentemente senza lavoro e spesso sono costrette a occuparsi unicamente dell’«integrazione» dei propri figli. Se le donne sono più spesso vittime di violenza domestica , le persone razzializzate subiscono il profiling «razziale» . Dato che le donne extraeuropee razzializzate appartengono a diverse categorie penalizzate, sono anche molto più dipendenti dal riconoscimento e dalla difesa dei loro diritti e dall’effettivo rispetto delle pari opportunità. A illustrare questa problematica sono due casi di mancata assunzione per motivi razziali che nel 2006, con il sostegno di Unia, sono stati giudicati per la prima volta in un tribunale. Nella fattispecie, il Tribunale del lavoro della Città di Zurigo ha condannato un’impresa di pulizie che si era rifiutata di assumere una cittadina svizzera di origine macedone velata («Non assumiamo donne che portano il velo», aveva scritto un datore di lavoro all’URC di Zurigo). Il Tribunale del lavoro della Città di Losanna ha invece condannato una casa di riposo privata per essersi rifiutata di assumere una donna come infermiera a causa del colore della sua pelle («Per questo posto cerchiamo una persona giovane, coscienziosa e brillante. Non vogliamo pelle nera. Solo cittadini svizzeri o dell’UE», aveva precisato il datore di lavoro). È lecito presumere che si trattava di datori di lavoro che si erano espressi con entusiasmo a favore del divieto di costruire minareti o di indossare il burka o per l’espulsione delle pecore nere…
La discriminazione non rientra nella responsabilità individuale delle persone che la subiscono. Si tratta di un problema pubblico che richiede una responsabilità collettiva. Inoltre, la lotta contro le discriminazioni e per la giustizia sociale non è soltanto una questione morale, ma si fonda sul diritto, e gli strumenti vigenti impongono misure correttive. I sindacati rivendicano diverse azioni concrete. In primo luogo, è necessario sostenere iniziative di effettiva prevenzione e lotta contro le discriminazioni razziali basate soprattutto sul colore della pelle, l’origine o lo statuto amministrativo, in particolare sul mercato delle assunzioni, del lavoro e dell’alloggio e nel campo della formazione, ma anche nei discorsi politici e nei media, nelle procedure del diritto sugli stranieri e del diritto di asilo e nelle pratiche di polizia. Occorre intensificare la lotta contro ogni forma di discorso d’incitamento all’odio (hate speech), con l’estensione del campo di applicazione dell’articolo 261bis del CP a qualsiasi atto o discorso xenofobo, razzista, sessista o abilista. Occorre anche facilitare l’accesso alle procedure per l’ottenimento della cittadinanza (naturalizzazione e diritti politici comunali e cantonali per le persone straniere). È fondamentale concedere permessi di soggiorno stabili a tutte le persone che sono nate e/o lavorano in Svizzera e limitare severamente la pratica dei permessi per dimoranti temporanei. Deve essere garantito il diritto alla formazione professionale e al riconoscimento delle esperienze professionali e dei diplomi conseguiti all’estero. Occorre generalizzare le convenzioni collettive vincolanti che contengono disposizioni sul salario minimo e prevedono procedure di candidatura anonima. Per concludere, è necessario eseguire statistiche incrociate per genere, origine, statuto amministrativo, qualifiche e categoria professionale (compresi il tasso di occupazione e l’evoluzione della retribuzione) e fornire dati specifici sulle discriminazioni strutturali e istituzionali. È responsabilità di ciascuno di noi denunciare le discriminazioni subite nella vita quotidiana da una parte della popolazione e unirsi alla lotta collettiva. Sono in gioco i nostri valori e diritti fondamentali.