TANGRAM 46

Il razzismo è nella nostra testa

Autor

Jan Christoph Bublitz sta acquisendo l’abilitazione alla libera docenza in questioni di psicologia, diritto penale e diritti umani all’Università di Amburgo. christoph.bublitz@uni-hamburg.de

Questo contributo è stato pubblicato per la prima volta nel giugno del 2020 sul sito www.verfassungsblog.de.

Il pensiero umano è soggetto a distorsioni. Per ridurre la loro influenza, occorre innanzitutto che il singolo, il diritto e la giustizia riconoscano l’esistenza dei bias razziali.

La psicologia solleva una verità scomoda: la maggior parte delle persone racchiude in sé, senza esserne necessariamente consapevole, tutta una serie di pregiudizi. Questo fa apparire empiricamente disinformati i dibattiti in corso sul razzismo latente in seno alla polizia e alla giustizia e dovrebbe indurre a fare autocritica sul proprio modo di pensare. Quest’autocritica è spiacevole, sia per il singolo sia per le istituzioni, perché porta alla luce aspetti invisi alla morale e vietati dalla Costituzione, ossia la disparità di giudizio e di trattamento basata sull’appartenenza e sull’attribuzione a determinati gruppi. Il pensiero umano è soggetto a una moltitudine di distorsioni di questo tipo, chiamate bias. In riferimento a gruppi ve ne sono ad esempio di fondate sul genere, l’età, l’avvenenza o l’orientamento sessuale. A queste si aggiungono i bias razziali (nella ricerca psicologica sono riferiti soprattutto al colore della pelle e all’etnia), di cui ci occupiamo qui. Simili pregiudizi agiscono spesso a livello inconscio, manifestandosi persino in spiriti benevoli e liberali. I meccanismi da cui nascono sono parte dell’architettura della cognizione umana, i loro contenuti sono appresi e possono influenzare gli schemi di pensiero e i comportamenti anche di chi rifiuta esplicitamente i giudizi stereotipati. Respingere di riflesso il rimprovero di trattare in modo discriminatorio specifici gruppi impedisce un’analisi autentica del problema e la ricerca di soluzioni. Ridurre l’influenza dei bias sul pensiero presuppone che il problema sia riconosciuto dalla singola persona, dalla giustizia e dalla dottrina.

Partiamo da una domanda apparentemente semplice: come sappiamo di non avere schemi di pensiero e di comportamento razzisti e come possono le istituzioni come la polizia e la giustizia verificare questo aspetto nelle persone che agiscono in nome loro? Il fatto di non avvertire consapevolmente antipatia nei confronti degli stranieri o di non avere pensieri in questo senso non basta: si sfiora appena la superficie del problema. Occorre piuttosto analizzare – con la massima sincerità verso sé stessi – l’intera gamma dei propri punti di vista e delle convinzioni in termini di attribuzioni a gruppi. E qui iniziano le vere difficoltà.

L’immagine di sé è influenzata dalle aspettative della società. L’assenza di pregiudizi assume una valenza particolare quando è il ruolo professionale a richiederla: chi desidera diventare un buon giudice non può certo considerarsi prevenuto. Tuttavia, l’autopercezione e la realtà possono divergere profondamente. Le persone, infatti, notano molto meno le proprie distorsioni di pensiero rispetto a quelle degli altri. Gli psicologi parlano in questo caso di bias del punto cieco (o bias blindspot). In un sondaggio, questo tipo di distorsione ha ad esempio portato il 97 per cento dei giudici statunitensi interpellati ad affermare di considerarsi migliori della media nell’esprimere sentenze scevre da pregiudizi razziali (Wistrich/Rachlinsky 2017, 106). Al bias del punto cieco si aggiungono altri errori di valutazione: si va dal bias di conferma alle razionalizzazioni ex post passando dall’evitamento della dissonanza cognitiva – tutti errori indicanti che le autovalutazioni introspettive sono poco affidabili. I bias distorcono il pensiero ma lasciano al soggetto un’illusione di obiettività (Sood 2013). La ricerca psicologica insegna che coloro che si credono privi di bias molto probabilmente ne sono vittima, e tra loro vi sono anche persone con elevate capacità cognitive. Per valutare criticamente il proprio comportamento basta immaginare di trovarsi da soli in un vicolo buio e vedere sopraggiungere tre persone di colore. Si reagisce davvero come se arrivassero tre bianchi?

Atteggiamenti impliciti

Considerate le sostanziali differenze tra quello che le persone pensano o riferiscono di sé e il loro comportamento, la psicologia tenta di misurare in modo indiretto gli atteggiamenti. Le persone spesso non sono consapevoli dei cosiddetti atteggiamenti impliciti, chiamati anche «pregiudizi inconsci» (Greenwald/Lai 2020). Un metodo studiato da oltre vent’anni è quello dell’Implicit Association Test (IAT), che esamina la forza delle associazioni mentali tra concetti e atteggiamenti. Messo gratuitamente a disposizione online dall’Università di Harvard , può essere compilato in pochi minuti e i risultati sono impressionanti.

Dall’IAT emerge che la maggioranza dei partecipanti, ad esempio, associa «famiglia» più a «donna» che a «uomo» e «arma» più a «pelle scura» che a «pelle bianca». Si constatano inoltre preferenze valutative implicite per i bianchi rispetto alle persone di colore, così come bias di genere e favoritismi intergruppo, nonché preferenze per le persone attraenti rispetto a quelle sovrappeso o con problemi fisici, tra l’altro quasi sempre, sebbene in forma attenuata, anche all’interno dei gruppi stessi. Generalizzando un po’, si può affermare che numerosi atteggiamenti stereotipati esplicitamente respinti dalla maggior parte delle persone e per lo più socialmente ostracizzati sono in realtà riscontrabili sul piano degli atteggiamenti impliciti.

Che cosa siano esattamente gli atteggiamenti impliciti e quali siano le loro conseguenze è oggetto di controversie che perdurano (Gawronski, 2019). È importante tenere presente che l’IAT non è particolarmente significativo sul piano individuale; lo diventa soltanto a livello aggregato (non è possibile dichiarare prevenuto un giudice sulla base del risultato del test). Meta-analisi rivelano che gli esiti dell’IAT sono da debolmente a moderatamente predittivi del comportamento effettivo (Kurdi et al. 2019, criticamente Oswald et al. 2013). La portata esatta è controversa e dipende tra l’altro dal tipo di azione. Gli atteggiamenti impliciti sembrano concretizzarsi nel comportamento soprattutto quando bisogna prendere una decisione in una frazione di secondo, in condizioni di forte stress psichico o senza criteri chiari. Questo spiegherebbe le disparità di trattamento in situazioni in cui giocano un ruolo le «decisioni spontanee» o «istintive», ad esempio durante i controlli di persone nello spazio pubblico, sovente oggetto di verifiche giudiziarie. Simili effetti sono segnalati anche da studi svolti con altri metodi, recentemente con la realtà virtuale. Esperimenti sul ricorso sproporzionato alle armi da fuoco negli USA contro le persone di colore (shooting bias) dimostrano che le idee stereotipate possono distorcere le basi decisionali e persino alterare la percezione della pericolosità di una persona o della presenza di un’arma (Correll et al., 2014).

Ciò nonostante, gli atteggiamenti impliciti costituiscono soltanto una parte della spiegazione di simili azioni e soltanto un tassello esplicativo di problemi stratificati e strutturali come il razzismo. L’importante contributo della ricerca sui bias risiede nella prova che il proprio pensiero, all’apparenza libero e informato, può essere influenzato e distorto da una serie di fattori soggettivi e che questo avviene regolarmente. Il riferimento è fissato dal bias. Questa consapevolezza può gettare un ponte tra le prospettive, oggi insanabilmente opposte, di coloro che subiscono e coloro che agiscono: i secondi respingono le esperienze di discriminazione quotidiana riportate dai primi facendo riferimento alla propria autopercezione. Eppure gli atteggiamenti impliciti provano che il «razzismo senza razzisti» può esistere. Dimostrano inoltre che la questione non si risolve identificando singole persone con atteggiamenti esplicitamente discriminatori in seno alla polizia e alla giustizia. Per esprimerlo con una metafora un po’ inflazionata, quella è solo la punta dell’iceberg. Gli atteggiamenti stereotipati sono radicati nel sottosuolo psichico di ampie parti della popolazione.

Conseguenze giuridiche

I bias impliciti sollevano una serie di interrogativi di ordine giuridico, che in Germania sono in attesa di un’analisi scientifica: bisognerebbe sondare dove e come possono acquisire efficacia giuridica. Probabilmente soprattutto là dove si elaborano stime e previsioni (dalla credibilità dei testimoni alla pericolosità), in margini discrezionali e valutativi. La psicologia dell’implicito, unita al classico problema di diritto teorico della sottodeterminazione del diritto stesso, genera un grande potenziale di discriminazione.

Il dubbio costituzionale se le disparità di trattamento costituiscano una violazione degli speciali divieti di discriminazione di cui all’articolo 3 capoverso 3 della legge fondamentale della Repubblica federale di Germania (Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland, GG – la denominazione ufficiale della Costituzione della Repubblica federale di Germania), quando non sono il frutto di pensieri consapevoli bensì di bias impliciti, pare non avere ancora trovato risposta nella massima autorità giudiziaria tedesca. Certo è che le violazioni non presuppongono una discriminazione intenzionale. Se la sola causalità di una caratteristica vietata o il «collegamento» inconsapevole a una tale caratteristica sia sufficiente è tuttavia controverso. Se l’articolo 3 capoverso 3 GG sancisce un divieto di giustificazione, come taluni sostengono, probabilmente esse non farebbero stato, visto che gli atteggiamenti impliciti non saranno usati come giustificazione da coloro che non vi hanno introspettivamente accesso. La Corte costituzionale federale tedesca parla di «ragioni» (Gründen), ma la terminologia non è stata definita considerando i bias impliciti. Poiché il senso e lo scopo della prescrizione rivolta allo Stato è di evitare disparità di trattamento basate sul colore della pelle, a prescindere da quel che accade a livello psichico nelle persone che agiscono sotto la propria responsabilità, le disparità di trattamento dovute ai bias dovrebbero costituire una violazione del divieto di discriminazione sancito dall’articolo 3 capoverso 3 GG (eventualmente come caso speciale di «discriminazione occulta»). La natura implicita del bias può eventualmente essere presa in considerazione in questioni successive, ad esempio in sede di bilanciamento con il diritto costituzionale collidente. Un discorso simile vale per l’imparzialità del giudice, con la quale i bias con effetto sul comportamento sono regolarmente incompatibili.

Nella prassi giuridica, simili atteggiamenti impliciti spesso non sono dimostrabili in sede processuale. Tuttavia, questa scarsa dimostrabilità non dovrebbe impedire di evitare discriminazioni oggettivamente vietate, conformemente all’obbligo costituzionale. La natura degli atteggiamenti impliciti dovrebbe indurre il diritto a procedere alle modifiche del caso. Le dichiarazioni in merito ai motivi vanno ad esempio valutate in modo particolarmente critico. Anche chi nega sinceramente di aver scelto le persone da controllare in base al colore della pelle può in realtà averlo fatto proprio per questo motivo. L’«impressione» di una situazione può essere distorta da atteggiamenti impliciti. L’esistenza di questi ultimi può inoltre suggerire un’inversione dell’onere della prova, come ipotizzato dalla giurisprudenza nel quadro delle norme della GG. Infine, gettano una luce critica anche sulla presunzione di imparzialità dei giudici da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. La ricerca psicologica non può certamente invalidare assunti normativi, ma può dimostrare che portano allo svantaggio di tutti coloro che sono vittima di bias. Questo svantaggio necessita di una giustificazione. Per non parlare del contrasto tra lo stato della ricerca psicologica e il fatto che già solo l’apparente imparzialità basti a motivare il timore della parzialità.

Un metodo sociologico per individuare le distorsioni consiste nel rilevare sistematicamente l’esito delle decisioni amministrative e giudiziarie in procedimenti con partecipanti aventi determinate caratteristiche. I bias emergono in schemi decisionali, ad esempio quando certe decisioni penalizzano in misura rilevante uno specifico gruppo. Questo non consente di individuare un errore concreto, ma permette di verificare la qualità del «sistema decisionale» nel suo complesso. Studi di questo genere condotti negli USA e altrove suggeriscono l’influenza dei bias razziali e di altri fattori di disturbo psichici in seno al sistema giudiziario, ad esempio anche nei controlli di polizia. Lo svolgimento di simili studi va incoraggiato anche da noi.

Una possibile contromisura: ridurre i bias

Che cosa si può fare contro i bias impliciti? Nonostante i numerosi approcci per la loro riduzione (debiasing), praticamente non si dispone di conoscenze certe in merito a metodi dagli effetti durevoli (Lai et al. 2016). I corsi per superare i propri bias, pubblicizzati da più parti, di norma non sono supportati da basi scientifiche. Al momento, la psicologia non è in grado di spiegare come attenuare i bias. Al contempo, questi ultimi non sono fissi, spesso sono appresi e soggetti a mutamenti. In linea di principio, il debiasing è dunque possibile. Probabilmente servono tecniche mentali per sovrascrivere intuizioni e sentimenti, nonché esperienze che smontino gli stereotipi. Senza contare che gli effetti dei costrutti inconsapevoli sono limitati ad esempio dalle istituzioni o da disciplinamenti giuridici. Servono quindi cambiamenti individuali, istituzionali, del diritto materiale e procedurale, nonché una maggiore ricerca sul debiasing alla luce delle condizioni speciali in seno alle autorità e alla giustizia. Il primo passo è, in ogni caso, la presa di coscienza della predisposizione del proprio pensiero. L’umiltà epistemica, l’interrogarsi sulla propria effettiva obiettività e l’ascolto delle persone colpite non fanno inoltre mai male. L’invisibilità della discriminazione, a volte, non è dovuta alla sua assenza, bensì all’incapacità delle persone di riconoscerla. E questo andrebbe insegnato negli studi di legge e nella formazione dei funzionari.

Per concludere: il pensiero umano è soggetto a distorsioni sistematiche per le quali non ci sono soluzioni miracolose. La psicologia ricorda che i pregiudizi sono molto diffusi e dipinge un quadro in cui gli atteggiamenti discriminatori e le azioni che ne derivano non sono l’eccezione, bensì la regola. Gli obblighi giuridici di imparzialità, neutralità o non-collegamento a caratteristiche di un gruppo non sono qualcosa che può essere dato semplicemente per scontato, perché si tratta piuttosto di impossibilità psicologiche. Di sicuro nessuno perde i propri atteggiamenti impliciti nell’istante in cui diventa funzionario. L’imparzialità e l’assenza di bias sono ideali a cui il diritto deve avvicinarsi con un impegno psicologicamente informato. Alla luce della ricerca sui bias, i dibattiti politici quotidiani sul razzismo «latente» nella polizia, ad esempio, appaiono come rituali disinformati di difesa dall’indesiderabile. Se «latente» significa «implicito», allora un «sospetto generale» è giustificato: ampie cerchie della popolazione hanno atteggiamenti implicitamente razzisti, che in determinate circostanze si manifestano nel pensiero e nel comportamento. Anche se si preferisce vedere le cose diversamente. Inutile girarci attorno, quindi: la via verso una società più giusta passa giocoforza anche dalla propria testa.

Bibliografia:

Corell, Joshua et al. The Police Officer's Dilemma: A Decade of Research on Racial Bias in the Decision to Shoot (2014)
Greenwald, Anthony G. / Lai, Calvin K. Implicit Social Cognition (2020)
Kurdi, Benedek et al. Relationship between the Implicit Association Test and intergroup behavior: A meta-analysis (2019)
Lai, Calvin K. et al. Reducing implicit racial preferences: II. Intervention effectiveness across time (2016)
Oswald, Frederick L. et al. Predicting ethnic and racial discrimination: A meta-analysis of IAT criterion studies (2013)
Sood, Avani Mehta. Motivated Cognition in Legal Judgements – An Analytic Review (2013)
Wistrich, Andrew J. / Rachlinski, Jeffrey John. Implicit Bias in Judicial Decision Making How It Affects Judgment and What Judges Can Do About It (2017).
Gawronski, Bertram. «Six lessons for a cogent science of implicit bias and its criticism.» Perspectives on Psychological Science 14.4 (2019): 574-595. www.journals.sagepub.com